di Alessandro Santoro
Santoro è professore ordinario di Scienza delle finanze presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca, consigliere dei Ministri Gualtieri e Franco nella scorsa legislatura, da luglio 2021 presidente della Commissione per la redazione della relazione sull’economia sommersa e sull’evasione fiscale e contributiva (Relazione evasione).
la presente memoria ha ad oggetto solo le parti principali del DDL Delega riguardanti l’imposizione dei redditi delle persone fisiche (articolo 5) e l’imposta sul valore aggiunto (articolo 7), nonché alcuni principi e indirizzi che possono avere impatto sul contrasto dell’evasione fiscale (contenute negli articoli 2 e 15) e alcuni aspetti connessi alle disposizioni finanziarie (articolo 20). Nella disamina di questi argomenti farò riferimento ad alcune disposizioni del disegno di legge di delega fiscale nel testo approvato dal governo Draghi nella scorsa legislatura (richiamato di seguito come DDL Draghi) nonché alla versione di tale disegno di legge approvata dalla Camera, ora ripresa nell’atto C75.
1. Imposizione sui redditi delle persone fisiche (articolo 5)
La flat tax è stata introdotta in diversi paesi in transizione all’economia di mercato nel decennio compreso tra il 1994 e il 2005. Inizialmente sono state le Repubbliche baltiche, cioè Estonia, Lituania e Lettonia, ad introdurre la flat tax, scegliendo aliquote ???? di livello elevato rispetto a quelle precedentemente applicate nell’ambito delle imposte personali sul reddito (PIT). In un periodo successivo, la flat tax è stata adottata dai paesi dell’Est Europa provenienti dall’URSS o comunque dai paesi dell’ex Patto di Varsavia, quindi Russia, Ucraina, Repubblica Slovacca, Georgia e Romania. In questo caso, i livelli di ???? prescelti sono stati piuttosto bassi, vicini a quelli del primo scaglione della PIT adottata in precedenza e questa scelta è presumibilmente legata alla volontà da parte di questi paesi di “segnalare al resto del mondo il cambiamento di regime politico verso politiche orientate a favore del mercato” (Keen et al., 2008, p. 739).
Il motivo teorico principale per l’introduzione della flat tax è la convinzione dei suoi proponenti che la riduzione delle aliquote marginali effettive, nel caso in cui il livello di ???? sia inferiore alle aliquote marginali effettive applicate in precedenza, possa generare maggiore offerta di lavoro ed emersione dei redditi; i proponenti della flat tax fanno solitamente riferimento alla curva di Laffer che, come noto, teorizza che, quando il livello dell’aliquota marginale effettiva precedente la riforma è oltre quello “critico”, la sua riduzione possa determinare un aumento del gettito a causa della particolare forza dell’effetto comportamentale (ovvero la maggiore offerta di lavoro e l’ emersione di redditi prima non dichiarati).
Tuttavia, tralasciando il caso russo (su cui si veda la lettera g)) “in tutti i casi in cui l’aliquota è stata posta a livelli bassi (rispetto a quelli precedenti) vi è stata una riduzione nel gettito, e ciò è spiegabile con il fatto che, sebbene l’effetto comportamentale potrebbe aver mitigato la perdita di gettito, in nessun caso si è prodotto un effetto Laffer e la flat tax non è stata in grado di autofinanziarsi” (Keen et al., 2008, p. 741).
In Russia l’introduzione della flat tax ha coinciso con un aumento di gettito che però sembra dovuto più a fattori macroeconomici congiunturali (Keen et al, p. 741) e all’aumento della compliance, a sua volta dovuto più alle riforme che hanno migliorato l’efficienza dell’amministrazione fiscale, che non alla riduzione dell’aliquota marginale effettiva (Keen et al., p. 735).
Un’altra ragione per cui la flat tax viene sostenuta è la semplificazione che comporterebbe e, con questa, il miglioramento dell’adempimento spontaneo e del rapporto tra fisco e contribuente che ne conseguirebbero. Tuttavia, l’evidenza empirica non suggerisce (a parte nel caso russo già discusso) che la compliance sia aumentata a seguito dell’introduzione della flat tax e, d’altronde, questo è facilmente spiegabile con il fatto che la complessità delle imposte personali sul reddito dipende molto poco da aliquote e scaglioni e molto di più dall’esistenza di agevolazioni (sotto varie forme) e regimi fiscali particolari. L’introduzione della flat tax è stata, in alcuni casi (Ucraina e Repubblica Slovacca), l’occasione per riassorbire questi regimi ampliando quindi la base imponibile e, contestualmente, semplificando effettivamente la struttura del prelievo (Keen et al, p. 733).
La letteratura economica ha anche individuato un procedimento matematico per il calcolo del livello ottimale dell’aliquota della flat tax, i cui dettagli e risultati sono riportati in Appendice seguendo l’approccio illustrato da Keen e Slemrod (2017). In sintesi, l’idea è che l’aliquota debba essere tanto più bassa quanto maggiore è l’elasticità comportamentale (cioè la forza dell’effetto comportamentale), perché questa è l’indicatore della perdita di efficienza indotta dalla tassazione. D’altra parte, l’aliquota dovrebbe crescere al crescere della propensione per la redistribuzione (che corrisponde all’utilità sociale aggiuntiva che si crea prelevando 1 euro dai contribuenti e usandolo per finanziare i beni e i servizi pubblici), che rappresenta l’indicatore del guadagno di equità sociale indotto dalla tassazione. L’aliquota ottimale è il risultato del compromesso (trade-off) tra efficienza ed equità ed è facile verificare come, considerando i valori normalmente utilizzati nella letteratura economica, l’aliquota ottimale sia normalmente pari o superiore al 25%
1.2 Osservazioni sul modello di flat tax del DDL Delega alla luce della letteratura economica e delle evidenze empiriche
Il riferimento all’esigenza di rispetto del principio di progressività sembrerebbe prefigurare la volontà di definire un sistema di deduzioni o detrazioni fisse in valore assoluto (cioè invarianti rispetto al reddito) oppure decrescenti al crescere del reddito; si tratterebbe di un cambiamento di vasta portata rispetto alla situazione attuale, soprattutto per quanto riguarda le deduzioni, che sono molto concentrate nelle fasce elevate del reddito complessivo e ancor di più lo sarebbe se coinvolgesse i crediti d’imposta, anch’essi straordinariamente concentrati tra i redditi elevati.
b) Tuttavia, il testo, dopo il riferimento ad un riordino delle deduzioni dalla base imponibile (…)3 delle detrazioni dall’imposta lorda e dei crediti d’imposta limita la portata di tale riordino perché raccomanda di tenere conto della loro particolare finalità con particolare riguardo 1.1) alla composizione del nucleo familiare e ai costi sostenuti per la crescita dei figli; 1.2) alla tutela del bene costituito dalla casa e di quello della salute delle persone, dell’istruzione e della previdenza complementare; 1.3) agli obiettivi di miglioramento dell’efficienza energetica e della riduzione del rischio sismico del patrimonio edilizio esistente, con ciò sostanzialmente elencando tutte le principali categorie di deduzioni, detrazioni e crediti d’imposta; ne segue che non è chiaro come il Governo intenda concretamente attuare il principio di progressività attraverso il citato riordino.
c) Una revisione del criterio di attribuzione delle detrazioni sembra profilarsi sulla base della lettera a), numero 3, che prescrive l’inclusione nel reddito complessivo, rilevante ai fini della spettanza di detrazioni, deduzioni o benefìci a qualsiasi titolo, anche di natura non tributaria, dei redditi assoggettati a imposte sostitutive e a ritenute alla fonte a titolo di imposta in relazione all’IRPEF. Tuttavia, anche la portata di questa possibile revisione è limitata dal fatto che la principale categoria di imposte sostitutive, quella sui redditi finanziari, viene immediatamente dopo esclusa da questa possibile rilevanza.
d) Il testo non contiene alcun riferimento al livello di aliquota unica a cui tendere; se, ad esempio, tale livello fosse uguale al 15% oggi previsto per il regime forfettario per i lavoratori autonomi e gli imprenditori individuali, esso si collocherebbe molto vicino ai livelli adottati nei paesi dell’ex URSS dove peraltro, come già evidenziato (punto 1.1) lettera e)) si sono generate perdite di gettito senza alcun visibile effetto Laffer; va poi sottolineato che ad oggi non è visibile alcun effetto di recupero di compliance per l’applicazione del predetto regime forfettario nel nostro Paese (anzi, nella Relazione evasione 2022 è documentato un effetto negativo, per quanto parziale, di tale regime).
d) Il DDL Delega non prefigura alcun significativo riassorbimento dei regimi agevolativi oggi esistenti, che sono la vera causa della mancanza di equità orizzontale e verticale del prelievo, nonché della sua eccessiva complessità e quindi non sembra voler cogliere l’occasione dell’introduzione della flat tax per un significativo ampliamento della base imponibile, come invece accaduto in altri paesi (punto 1.1., lettera g)). Al contrario, il DDL delega conferma il regime catastale per i redditi agrari e indica l’introduzione di ulteriori forme di tassazione semplificata di tali redditi (articolo 5, lettera b)) nonché, mantiene il regime della cedolare secca ai canoni di locazione degli immobili abitativi di cui viene anzi prevista l’estensione anche alla locazione di immobili non abitativi (articolo 5, lettera c)).
e) Tale scelta è particolarmente sorprendente alla luce di quanto evidenziato nella Relazione evasione 2022 in esito ad una specifica analisi degli effetti della cedolare secca: “in conclusione, l’analisi empirica mostra che l’effetto positivo dell’introduzione della cedolare secca, sia in termini di margine estensivo (aumento della probabilità di stipulare e dichiarare un contratto di locazione), sia in termini di margine intensivo (incremento della base imponibile), non è sufficiente ad assicurare la copertura delle minori entrate derivanti dalla riduzione dell’aliquota e ha effetti regressivi in termini di distribuzione del reddito, posto che il risparmio in termini di imposizione fiscale beneficia soprattutto i contribuenti più ricchi” (Relazione evasione 2022, p. 106).
1.3 Osservazioni sul trattamento dei redditi da capitale finanziario: confronto tra DDL Delega e DDL Draghi
L’attuale tassazione separata dei redditi da capitale finanziario, che è implicita nella scelta di non adottare una base imponibile globale della PIT, viene confermata, con alcuni significativi cambiamenti nel DDL Delega, così come veniva mantenuta, nell’ambito dell’adozione del principio di tassazione duale, nel DDL Draghi. Al di là di questa similitudine, tuttavia, i due testi indicano direzioni di riforma alquanto diverse.
a) Per comprendere queste direzioni, e le loro implicazioni, è utile adottare lo schema di riferimento suggerito dal Direttore generale delle finanze nella sua audizione presso le Commissioni riunite di finanze e tesoro il 26 marzo 2021 (Dipartimento delle finanze, 2021); tale schema si basa sull’individuazione di tre fonti di disomogeneità nel trattamento dei redditi da capitale finanziario: i) la disomogeneità nelle aliquote, con 4 diversi livelli; ii) la disomogeneità nelle categorie di reddito, tra redditi di capitale e redditi diversi; iii) la disomogeneità tra i regimi di tassazione, ovvero regime del dichiarato, dell’amministrato e del risparmio gestito.
b) In tema di aliquote, il DDL Draghi indicava come obiettivo tendenziale la realizzazione del modello duale con la conseguente parità di trattamento di tutti i redditi da capitale finanziario (e anche immobiliare, articolo 2, numero 1, lettera a)) per realizzare obiettivi di efficienza e di neutralità, mentre il DDL Delega mantiene esplicitamente il trattamento agevolativo per i redditi derivanti da titoli di Stato (articolo 5, lettera d) numero 4)) nonché per i rendimenti dei fondi pensionistici complementari (articolo 5, lettera d) numero 9)).
c) In tema di categorie di reddito, il DDL Draghi non si pronunciava mentre il DDL Delega esplicitamente prevede un’unica categoria reddituale con riferimento alle ipotesi di redditi da capitale e redditi diversi, ovvero le plusvalenze, con adozione per tutte del principio di cassa e dell’applicazione dell’imposta sostitutiva sul risultato complessivo netto (articolo 5, lettera d), numeri 1), 2) e 5)).
c) La ragione della scelta fatta nel DDL Delega si può comprendere in astratto considerando che “dal punto di vista economico le due categorie reddituali sono strettamente correlate” e quindi che “la distinzione tra redditi da capitale e redditi diversi potrebbe essere ritenuta anacronistica e priva di senso” (Dipartimento delle finanze, 2021, p. 60), ma va ricordato che tale piena unificazione potrebbe avere effetti di gettito straordinariamente negativi in quanto “è plausibile ritenere, in via prudenziale, che la compensabilità immediata dello stock di perdite in conto capitale potrebbe ridurre in misura significativa o annullare il gettito attualmente derivante dai redditi finanziari” (Dipartimento delle finanze, 2021, p. 64). Di questo effetto il DDL Delega non sembra tenere conto, scegliendo la strada della piena unificazione in termini che non sembrano trovare corrispondenza in altri ordinamenti.
d) Proprio tenendo conto di questi effetti, invece, nel DDL Draghi si era scelto di operare sulla riduzione delle disomogeneità tra regimi di tassazione, indicando un obiettivo di armonizzazione dei regimi di tassazione del risparmio, ma tenendo conto dell’obiettivo di contenere gli spazi di elusione dell’imposta (articolo 2, comma 1, lettera d)). Con ciò si prefigurava una maggiore possibilità di compensazione delle minusvalenze con i redditi da capitale anche nel regime del risparmio amministrato ma tenendo presenti i rischi derivanti dall’ingegneria finanziaria (ad esempio, dalla possibilità di creazione delle minusvalenze fittizie e di conseguente differimento al futuro della tassazione con schemi tipo tax straddles) e i conseguenti effetti negativi sul gettito erariale (Dipartimento delle finanze, 2021, p. 62).
e) Si noti che, invece, la soluzione scelta dal DDL Delega, superando la distinzione tra le due categorie reddituali e prefigurando la tassazione per cassa del risultato complessivo netto comporta l’assunzione dei citati rischi a carico del fisco perché tende a consentire in pieno la compensabilità delle minusvalenze con interessi, dividendi e altri proventi finanziari anche nel regime del risparmio amministrato.
1.4 Osservazioni sulle prospettive di riforma previste dal DDL Delega nelle more dell’attuazione della flat tax
L’articolo 5, numero 2) del DDL Delega prefigura un cambiamento nella logica e negli importi delle detrazioni per tipo di reddito, e quindi dell’ampiezza delle aree di esenzione fiscale, (numeri 2.1) e 2.2)) nonché l’applicazione di un regime agevolativo transitorio per la tassazione degli incrementi di reddito (numero 2.4).
a) Per analizzare il primo aspetto è utile ricordare che oggi la differenziazione delle detrazioni per tipo di reddito, a cui consegue la determinazione dell’area di esenzione fiscale, genera sia effetti di aumento della progressività del prelievo (con importi prima costanti e poi decrescenti al crescere del reddito) sia effetti di discriminazione qualitativa del reddito (con favore per i redditi da pensione e da lavoro dipendente) a loro volta solo in parte spiegabili con la diversità di trattamento dei costi per la produzione del reddito (deducibili, almeno in linea di principio, dal reddito di lavoro autonomo e non deducibili dal reddito da lavoro dipendente). Un riordino appare quindi opportuno.
b) La strada scelta dal DDL Delega per attuare questo riordino, con la separazione tra la funzione di tendenziale parità di trattamento nella deducibilità dei costi di produzione del reddito, attribuita alle deduzioni per il lavoro dipendente (numero 2.2) e la funzione di equità (orizzontale e verticale) delle aree di esenzione (numero 2.1), è in linea di principio condivisibile, così come è condivisibile l’idea di dare priorità per l’equiparazione tra i redditi di lavoro dipendente e i redditi di pensione (ultima parte del numero 2.1). Tuttavia, poiché tale equiparazione dovrebbe avvenire in vigenza dell’attuale sistema per scaglioni andranno verificate le modalità con le quali verrà perseguita e i conseguenti impatti redistributivi tra tipologie di contribuenti nonché di gettito.
c) Se si andrà nella direzione di un’unificazione delle detrazioni per tipo di reddito, ci sono due possibilità; se l’unificazione avvenisse al livello più alto oggi previsto, determinando un’area di esenzione pari a quella di cui oggi godono i titolari di reddito da pensione (8500 euro), si avrebbe un vantaggio particolarmente marcato per i redditi da lavoro autonomo e da impresa individuale, con conseguente perdita di gettito mentre, se fosse posta ad un livello inferiore, vi sarebbe uno svantaggio per i pensionati e, se fosse inferiore a 8174 euro, anche per i lavoratori dipendenti, con conseguente recupero di gettito.
d) Se, invece, si andrà nella direzione di un completo superamento delle detrazioni per tipo di reddito, e di una loro sostituzione con una deduzione di un importo, uguale per tutti i contribuenti e per tutti i redditi nella logica del c.d. minimo vitale, vi sarebbe una netta riduzione della progressività rispetto ad oggi, perché sarebbero i contribuenti a reddito più elevato, che oggi non godono di alcuna detrazione quando il loro reddito complessivo supera i 50mila euro di reddito, ad avvantaggiarsene maggiormente.
e) Per quanto riguarda il secondo aspetto, il testo prefigura l’applicazione, in luogo delle aliquote per scaglioni di reddito, di un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali, in misura agevolata su una base imponibile pari alla differenza tra il reddito del periodo d’imposta e il reddito di periodo più elevato tra quelli relativi ai tre periodi d’imposta precedenti, con possibilità di prevedere limiti al reddito agevolabile, con ciò intendendo estendere il meccanismo di flat tax incrementale già previsto per il solo 2023 dalla legge di bilancio, nonché un ulteriore regime peculiare per i titolari di reddito di lavoro dipendente che agevoli l’incremento reddituale realizzato nel periodo d’imposta rispetto a quello precedente. Al riguardo va osservato che:
-sul piano dell’efficienza, l’idea è evidentemente ancora quella di stimolare l’offerta di lavoro e l’emersione sulla base del già citato effetto comportamentale; al riguardo vanno richiamate le osservazioni già formulate al punto 1.1, lettere d) ed e), sul fatto che tale effetto, anche quando sussiste, è di entità ridotta rispetto alla perdita di gettito che provoca; ciò vale a maggior ragione per i lavoratori dipendenti, la cui offerta di lavoro è rigida e la cui emersione è eventualmente legata alla riduzione del costo del lavoro, più che delle aliquote IRPEF, poiché essa dipende anche dalla volontà del datore di lavoro;
-sul piano dell’equità, oltre a limitare la progressività e quindi l’equità verticale, il ricorso a meccanismi di flat tax incrementale viola anche l’equità orizzontale (che pure è richiamata come principio generale proprio del numero 2)) perché un contribuente che ha un reddito x costante nel tempo sarà tassato di più rispetto ad un contribuente che ha inizialmente un reddito inferiore a x ma lo raggiunge in un periodo di imposta successivo (e, come argomentato in precedenza, non necessariamente e comunque non interamente a causa della riduzione di aliquota);
-infine, un meccanismo di questo tipo rende la struttura del prelievo ancora più complessa e ancor meno trasparente.
2 Imposta sul valore aggiunto (articolo 7)
Anche per l’analisi dell’imposta sul valore aggiunto conviene prima sintetizzare i principali risultati raggiunti dalla letteratura teorica ed empirica che studia le imposte sugli scambi, di cui l’IVA rappresenta il principale esempio nel mondo. Ciò per evitare di cadere nell’errore di considerare l’imposta semplicemente come la risultante di un insieme di norme giuridiche e non, invece, come strumento economico per l’efficienza del sistema fiscale e per la crescita economica.
2.1 Inquadramento teorico ed evidenze empiriche
a) Nell’approccio della letteratura tradizionale (prevalente fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso), la tassazione dei consumi dovrebbe essere differenziata a seconda del tipo di bene o servizio scambiato sulla base di elementi di efficienza e di equità. Dal punto di vista dell’efficienza, i beni a domanda rigida (ovvero i beni necessari) dovrebbero essere tassati maggiormente (rispetto ai beni meno necessari e quindi a domanda più elastica) perché la minore reattività della domanda implica un minore eccesso di pressione, ovvero un ridotto rapporto tra perdita di benessere dei consumatori e gettito generato (si parla al riguardo di regola dell’elasticità inversa o di regola di Ramsey). Dal punto di vista dell’equità, invece, i beni necessari dovrebbero essere tassati di meno, in quanto il loro consumo è più concentrato tra i consumatori a basso reddito rispetto al consumo dei beni meno necessari. Questo approccio ha portato la letteratura economica tradizionale a formulare delle regole matematiche per il calcolo delle aliquote ottimali delle imposte sul consumo, che, come quelle relative alle imposte sul reddito a cui si è fatto cenno al paragrafo 1.1, lettera h), nascono da un bilanciamento (trade-off) tra efficienza ed equità.
b) Tuttavia, nella letteratura più recente (Crawford et al., 2010) questo risultato viene fortemente messo in discussione e la tesi prevalente è che sia preferibile muovere verso una tassazione uniforme, cioè ad un’aliquota effettiva tendenzialmente costante, dei diversi consumi. Ciò è dovuto al fatto che, da un lato, gli impatti sull’efficienza dovrebbero considerare non solo gli effetti dell’imposta sul bene tassato, ma anche sui beni sostituti o complementari, a cominciare dal tempo libero. In altri termini, l’aspetto più importante dal punto di vista dell’efficienza è l’impatto che la tassazione dei consumi ha sull’offerta di lavoro ed è difficile argomentare che questo impatto sia differenziato tra beni diversi, eccetto alcuni specifici casi. Dall’altro lato, l’idea che, per ragioni di equità, i beni necessari debbano essere tassati di meno dimentica il fatto che questi beni sono relativamente più consumati dai poveri (rispetto ad altri beni che i poveri consumano poco o per nulla), ma, in assoluto sono comunque più consumati dai ricchi che sono, quindi, i principali beneficiari delle aliquote ridotte sui beni necessari.
c) Inoltre, la tassazione (più) uniforme è particolarmente indicata per l’IVA, perché riduce gli incentivi all’evasione attuata lungo la catena di produzione del valore aggiunto, e, in particolare, all’evasione delle vendite finali resa meno evidente dalla mancata richiesta a credito dell’IVA a bassa aliquota pagata sugli acquisti.
d) Conseguentemente, la letteratura economica ha sviluppato l’analisi dell’efficienza dell’IVA partendo dall’idea, empiricamente dimostrata (Cnossen, 2022), che l’efficienza stessa sia massimizzata quando tutti i beni e i servizi sono tassati alla stessa aliquota e le basi imponibili sono pienamente dichiarate, identificando quindi come fonti di inefficienza nel disegno dell’IVA sia l’erosione, ossia l’applicazione di aliquote ridotte (che dà luogo al cosiddetto policy gap), sia l’evasione, ossia la sottodichiarazione delle basi imponibili, che dà luogo al cosiddetto compliance gap.
e) Tuttavia, va tenuto presente il fatto che la recente direttiva europea 2022/542, pur indicando come regola la tassazione uniforme ad aliquota standard non inferiore al 15%, ha anche confermato, e per certi versi ampliato, l’elenco dei beni e dei servizi che possono essere assoggettati ad aliquota ridotta.
2.2 Osservazioni sui principi di riforma dell’imposta sul valore aggiunto: confronto tra DDL Delega e DDL Draghi (C 75)
Le prospettive di riforma dei due disegni di legge in materia di IVA, se esaminate alla luce di quanto riportato nel paragrafo 2.1, appaiono alquanto diverse nell’impostazione e nelle implicazioni.
a) L’articolo 4, comma 1, lettera a) del DDL Draghi (conforme al testo di C75) era costruito in modo da permettere al legislatore delegato di tenere conto degli aspetti evidenziati nelle lettere da a) a d) del paragrafo 2.1. In particolare, la possibilità di “razionalizzazione della struttura dell’IVA, con particolare riferimento al numero e ai livelli delle aliquote e alla distribuzione delle basi imponibili tra le diverse aliquote” veniva legata “allo scopo di semplificare la gestione e l’applicazione dell’imposta, contrastare l’erosione e l’evasione fiscali e aumentare il grado di efficienza del sistema impositivo” . L’idea sottostante era quella di indicare al legislatore delegato la strada di ridurre il numero delle aliquote, tendendo verso un’aliquota unica, con effetti positivi sull’efficienza dell’imposta nonché, utilizzando il gettito per la riduzione delle imposte sul reddito da lavoro, anche sulla crescita economica (Acosta-Ormaechea e Moruzumi, 2021). Il riferimento finale alla “disciplina armonizzata dell’imposta” era la soluzione scelta nell’attesa che la direttiva europea entrasse in vigore, e avrebbe comunque consentito di utilizzare gli spazi di discrezionalità che la direttiva stessa oggi fornisce.
b) L’articolo 7 del DDL Delega, invece, sembra prendere ad esclusivo riferimento la direttiva europea, ponendosi in una prospettiva non di riforma complessiva dell’imposta secondo il principio dell’efficienza economica, ma invece del suo mero adattamento alle nuove regole, ed eventualmente allo sfruttamento della possibilità di introdurre ulteriori aliquote ridotte. Infatti, alla lettera c) si legge che la razionalizzazione del numero e la misura delle aliquote dell’IVA dovrà seguire i criteri posti dalla normativa dell’Unione europea, al fine di prevedere una tendenziale omogeneizzazione del trattamento per beni e servizi similari, quindi con un obiettivo ben più modesto e limitato rispetto a quello che ispirava la riforma dell’IVA nel DDL Draghi.
c) Inoltre, il DDL Delega contiene una serie di principi direttivi che si riferiscono ad aspetti invero molto specifici dell’imposta, quali la possibilità di sostituire alcune esenzioni con la non imponibilità (e conseguente perdita di gettito, visto che chi compie operazioni esenti a differenza di chi compie operazioni non imponibili non ha il diritto alla detrazione dell’IVA pagata sugli acquisti), di rivedere la disciplina delle detrazioni nonché di ridurre l’IVA sulle importazioni di opere d’arte. In sintesi, mentre il DDL Draghi dettava principi generali indicando una direzione di riforma ampia e profonda, nella convinzione condivisa con la letteratura economica internazionale che il disegno dell’imposta possa contribuire ad aumentare la sua efficienza, attualmente molto bassa nel nostro Paese (in Europa l’Italia soffre del terzo più alto compliance gap e del sesto più alto policy gap azionabile, European Commission, 2022) , e quella del sistema economico, il DDL Delega si muove in una prospettiva di aggiustamento al margine di alcuni aspetti della normativa in materia di imposta sul valore aggiunto.
3 Osservazioni su alcuni principi in tema di evasione fiscale (artt. 2 e 15)
Nel DDL Delega il contrasto dell’evasione fiscale è affidato principalmente a misure di efficientamento dell’azione dell’amministrazione fiscale. Per valutare queste misure, è preliminarmente necessario fare chiarezza sugli andamenti dell’evasione fiscale nel nostro paese come risultanti dai dati ufficiali, ossia dalla Relazione evasione che, giova ricordarlo, è un documento ufficiale allegato alla NADEF e costituisce la base anche per gli obiettivi del PNRR concernenti l’evasione.
3.1 Andamenti recenti del tax gap
a) Il tax gap è la principale misura dell’evasione fiscale utilizzata a livello internazionale. In prima approssimazione, esso corrisponde alla differenza stimata tra il gettito teorico in assenza di evasione e il gettito effettivo, con riferimento ad una o a più imposte. La misura del tax gap è affidata, nel quadro della Relazione evasione, all’Agenzia delle entrate e, limitatamente ad alcune specifiche imposte, al Dipartimento delle finanze. Le stime sono considerabili sufficientemente assestate 3 anni dopo il periodo d’imposta a cui si riferiscono, un elemento molto importante ai fini della quantificazione delle risorse disponibili per la riduzione delle imposte, come meglio si vedrà nel paragrafo 4. Le metodologie utilizzate, in particolare la metodologia top-down, sono quelle condivise a livello internazionale, e infatti i risultati di uno tra i principali tax gap, quello relativo all’IVA, diffusi nella Relazione sono molto vicini a quelli ottenuti dalla Commissione europea (European Commission, 2022) e da altri organismi internazionali.
L’andamento dei principali gap relativi alle principali imposte e del gap complessivo nell’ultimo quinquennio
In termini assoluti, i due gap principali sono quelli dell’IVA e dell’IRPEF, sostanzialmente coincidente con l’IRPEF evasa da lavoratori autonomi ed imprenditori individuali. L’andamento di questi due gap partendo dal 2014 è stato molto diverso. Il gap IVA ha mostrato una netta tendenza alla riduzione, in qualche misura riflessa, e per certi versi anche amplificata, dall’andamento del gap cumulato dell’Ires e dell’Irap. La conseguenza è stata la riduzione del gap complessivo, che è diminuito di quasi il 20% e di 4 punti percentuali in termini assoluti (passando dal 22,6% del 2014 al 18,5% del 2019, ed è questo il dato rilevante ai fini dei futuri obiettivi del PNRR). Al contrario, il gap dell’IRPEF dovuto all’evasione stimata dei lavoratori autonomi e degli imprenditori individuali è aumentato di oltre 8,5 punti percentuali tra il 2014 e il 2019.
c) Ad oggi manca una spiegazione della divergenza del gap IRPEF rispetto a quello relativo alle altre imposte. Essa potrebbe essere dovuta alla specificità di alcuni provvedimenti che hanno riguardato solo le modalità di versamento dell’IVA. Si pensi allo split payment che ha generato un recupero, stimato nella Relazione evasione del 2017 e confermato in quelle successive, di circa 3,5 miliardi annui, a cui si sono aggiunti ulteriori 1,1 miliardi di recupero di gettito, stimati nella Relazione evasione del 2020, con l’estensione del meccanismo alle società quotate e ad altre società di grandi dimensioni. Un’altra possibilità è che taluni provvedimenti abbiano avuto un effetto diverso tra società di capitali e soggetti IRPEF a causa della diversa struttura economica. Si pensi alla fatturazione elettronica, il cui effetto, stimato in circa 2 miliardi di gettito aggiuntivo nella Relazione evasione 2020, dipende dalla percezione di una maggiore potenzialità di controllo e di incrocio, da parte dell’amministrazione finanziaria, dei ricavi e dei costi da essi dichiarati con riferimento alle operazioni business-to-business (B2B) .
3.2: Principi del DDL Delega in continuità con le recenti politiche di contrasto dell’evasione
a) I principi dell’articolo 2, lettera b) del DDL Delega indicano l’intenzione di arrivare a consentire il “pieno” utilizzo dei dati, in particolare quelli della fatturazione elettronica e dei corrispettivi, e la “piena” interoperabilità delle banche dati, con il potenziamento dell’analisi del rischio. Si tratta di principi pressoché identici a quelli contenuti nell’articolo 1, lettera b), numero 2 nonché lettera d) del DDL Draghi come approvato alla Camera (C75).
b) Sull’analisi del rischio torna l’articolo 15, comma 1, lettera c) del DDL Delega prevedendo di razionalizzare e riordinare le disposizioni normative concernenti le attività di analisi del rischio, nel rispetto della normativa in materia di tutela della riservatezza e di accesso agli atti; questa disposizione sembra prefigurare l’intenzione di generalizzare a tutte le banche dati le procedure di analisi del rischio ad oggi previste, dopo un faticosissimo iter applicativo durato oltre due anni e conclusosi con il varo del decreto ministeriale 28 giugno 2022, attuativo dell’articolo 1, comma 683 della legge di bilancio per il 2020, per la sola anagrafe dei conti correnti e dei rapporti patrimoniali.
c) In particolare, l’articolo 15, comma 1, lettera c) del DDL Delega potrebbe consentire di adottare per il trattamento dei dati contenuti nelle banche dati da utilizzare ai fini dell’analisi del rischio, alcune limitazioni dei diritti indicati agli articoli 15, 17, 18 e 21 del regolamento (UE) 2016/679 (c.d.
regolamento privacy). Si tratta, in particolare del diritto di accesso ai dati, che comprende quello di conoscerne le finalità e di potersi opporre al trattamento, di quello di rettifica, nonché del diritto alla cancellazione dei dati (c.d. diritto all’ oblio) e di quello di chiedere una limitazione al trattamento. La possibilità di limitare questi diritti in presenza di rilevanti interessi pubblici definiti con apposite misure legislative è prevista dallo stesso regolamento privacy all’articolo 23. La prevenzione e il contrasto dell’evasione fiscale sono stati inseriti dall’Italia tra tali interessi proprio con la legge di bilancio per il 2020. La soluzione scelta dal dm 28 giugno 2022 si basa sulla distinzione tra il database di analisi, che contiene l’insieme dei dati raccolti per verificare il grado di rischio, dal database di controllo che contiene l’insieme dei dati dei contribuenti per i quali, sulla base della precedente quantificazione del grado di rischio, l’amministrazione ha deciso di procedere con controlli fiscali o azioni di incentivo alla compliance (come l’invio delle lettere di conformità). Il diritto di accesso ai dati viene consentito ai contribuenti rientranti nel database di controllo solo dal momento in cui il relativo provvedimento (ricezione della lettera o dell’atto istruttorio) viene notificato, mentre, per gli altri contribuenti, decorre dal giorno successivo a quello di decadenza della potestà impositiva. L’idea di fondo è che l’esercizio del diritto di accesso ai dati non possa avvenire durante la fase di analisi del rischio, che è per sua natura statistica e basata su dati pseudonimizzati, e venga quindi posposto fino al momento in cui il contribuente viene effettivamente selezionato (o, se non selezionato, fino al momento in cui non può più subire controlli). Consentire il diritto di accesso durante l’analisi del rischio avrebbe, infatti, l’effetto di paralizzarla e renderla del tutto inutile: basti immaginare un’analisi di milioni di dati interrotta ogni qual volta un singolo contribuente richieda di conoscerne la finalità.
d) Se l’attuazione dell’articolo 15, comma 1, lettera c) andasse in questa direzione, confermerebbe quanto il Governo Draghi aveva anticipato nella Relazione sulle strategie per il contrasto dell’evasione da omessa fatturazione (Mef, 2021) nella quale l’analisi del rischio veniva considerato uno dei principali strumenti utilizzabili laddove, in assenza di fatturazione, non possano essere utilizzati la fatturazione elettronica e gli altri strumenti di normale incrocio dei dati. Questo approccio renderebbe anche condivisibile il principio enunciato dallo stesso articolo 15, lettera e) numero 2, secondo cui l’azione di contrasto dell’evasione dovrà avvenire attraverso azioni mirate, idonee a circoscrivere l’attività di controllo nei confronti di soggetti a più alto rischio fiscale, con minore impatto sui cittadini e sulle imprese anche in termini di oneri amministrativi;
3.3 Osservazioni sul concordato preventivo biennale
a) Al punto 2) del primo comma dell’articolo 15, il DDL Delega prevede l’introduzione del concordato preventivo biennale per i titolari di reddito da lavoro autonomo e di impresa di minore dimensione. Con questo istituto, si ipotizza che il contribuente si impegni, previo contradditorio con modalità semplificate, ad accettare e a rispettare la proposta per la definizione biennale della base imponibile ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP formulata dall’Agenzia delle entrate. Dall’altro lato, sono irrilevanti ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP nonché dei contributi previdenziali obbligatori di eventuali maggiori o minori redditi imponibili rispetto a quelli oggetto del concordato, fermi restando gli obblighi contabili e dichiarativi.
b) Non si tratta di un istituto nuovo nel nostro ordinamento. Fu originariamente previsto nel disegno di legge delega del 2001, e se ne tentò l’introduzione con l’articolo 6 della legge 289/2002, poi inattuato. L’unica ipotesi di concreta attuazione è stata quella del concordato preventivo sperimentale previsto per il biennio 2003-2004 dall’articolo 33 del decreto legge 69/2003 e adottato da pochi contribuenti, presumibilmente perché non sufficientemente “attraente”.
c) Per capire cosa potrebbe cambiare con il “nuovo” concordato preventivo è fondamentale chiedersi sulla base di quali elementi l’Agenzia delle entrate formulerà la proposta di definizione biennale della base imponibile. Il testo dell’articolo 15, comma 1, punto 2.1) suggerisce che ciò avverrà, anche utilizzando le banche dati e le nuove tecnologie a sua disposizione. Alcune dichiarazioni del Governo indicano la volontà di utilizzare gli Isa (indicatori sintetici di affidabilità fiscale), introdotti dal 2018 in sostituzione degli studi di settore. Gli Isa generano un voto da 1 a 10 sull’affidabilità fiscale del contribuente derivante dalla conformità della sua dichiarazione rispetto ad alcuni valori presunti dei ricavi, del valore aggiunto e del reddito, e già prevedono un regime premiale. La definizione biennale della base imponibile pari a quella presunta potrebbe rinforzare tale regime premiale. Si tratterebbe, ancora una volta, di una scelta in sostanziale continuità con le politiche perseguite negli ultimi anni, che, nel caso degli Isa, sembrano avere avuto un effetto positivo sulla compliance (Relazione evasione, 2022). Basare il concordato biennale sugli Isa consentirebbe, quindi, di creare un incentivo all’emersione differenziato a seconda della situazione individuale del contribuente, che dovrebbe aumentare il reddito dichiarato in misura maggiore quanto più è distante dal valore plausibile per la sua specifica situazione.
d) Tuttavia, l’articolo 14, comma 1, lettera a) prevede il graduale superamento degli Isa e questo rende meno certo il percorso attuativo che ha in mente il Governo. Non è chiaro come il concordato preventivo possa diventare uno strumento ordinario di gestione del rapporto fisco- contribuente attraverso l’utilizzo degli Isa se ne viene previsto il superamento. Una possibile interpretazione è che il Governo intenda mantenere alimentato il flusso dei dati che consentono di arrivare alla definizione della proposta superando le altre forme di premialità e/o superando gli Isa come indicatore di rischio. Il pericolo che va evitato, e che rappresenterebbe un pericoloso ritorno al passato, è quello che la proposta di definizione biennale, anziché basarsi sui dati individuali dello specifico contribuente, si limiti ad un aggiornamento percentuale dei valori dichiarati nei periodi fiscali precedenti. In questo modo, infatti, l’accesso al concordato preventivo sarebbe particolarmente attraente per i contribuenti che evadono di più generando una paradossale premialità al contrario.
4) Osservazioni sulle disposizioni finanziarie (articolo 20).
a) Secondo il testo dell’articolo 20, comma 1 dall’attuazione della delega non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica né incremento della pressione tributaria rispetto a quella risultante dall’applicazione della legislazione vigente.
b) Nel comma 3 vengono delineate le due ipotesi principali di finanziamento. La prima è l’utilizzo delle risorse di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, eventualmente integrate in base a quanto previsto dal comma 5 del medesimo articolo 1. Si tratta del fondo per la riduzione della pressione fiscale creato con la legge di bilancio per il 2021. Questo fondo contiene, in particolare, le maggiori entrate permanentemente determinate dalla riduzione del tax gap (si veda il paragrafo 3.1), e non è più quindi legato solo alle maggiori imposte riscosse.
c) Va ricordato che nel 2021 la riduzione del tax gap maturata nel 2018 (la quantificazione avviene, come già evidenziato nel paragrafo 3.1, lettera a), con tre anni di ritardo) aveva generato riserve disponibili per circa 4,4 miliardi, utilizzate per finanziare la riforma delle aliquote IRPEF, mentre nel 2022 la riduzione del tax gap maturata nel 2019 aveva generato riserve disponibili per circa 1,4 miliardi. Questa tendenza alla riduzione delle risorse disponibili derivanti dall’andamento del tax gap non è casuale. I provvedimenti che hanno generato –come dimostrato attraverso appositi esercizi econometrici contenuti nella Relazione evasione- questo recupero, infatti, ovvero lo split payment e la fatturazione elettronica, hanno presumibilmente già dato i loro frutti. E, a maggiore dimostrazione del fatto che questa tendenza potrebbe confermarsi, è sfuggito ai più il fatto che, per la prima volta dopo molti anni, la stima provvisoria del tax gap dell’IVA per il 2020 segnala, per la prima volta dopo molti anni, un peggioramento dello stesso (Aggiornamento della Relazione evasione, 2022).
d) Se anche venissero attuate le misure di contrasto dell’evasione indicate nel paragrafo 3, queste potrebbero avere effetto solo a partire dal 2024 e, quindi, servirebbero ad alimentare il fondo per la riduzione della pressione fiscale solo a partire dal 2027.
e) La seconda fonte di finanziamento prevista dal citato comma 3 è la compensazione con le risorse finanziarie recate dai decreti legislativi adottati ai sensi della presente legge, trasmessi alle Camere prima di quelli che comportano i nuovi o maggiori oneri. La difficoltà, in questo caso, consiste nel fatto che i principi direttivi a cui sono connessi potenziali perdite di gettito (anche rilevanti) sono molto più frequenti rispetto a quelli la cui attuazione potrebbe comportare dei recuperi di gettito.
f) Il principale tra questi ultimi, inoltre, è il riordino delle deduzioni, detrazioni e crediti d’imposta IRPEF la cui portata concreta sembra essere alquanto limitata, come già illustrato nel paragrafo 1.2, punto b).














