Per l’esecutivo è meglio prendersela con le banche che, alla fin fine, non votano, rispetto alle persone fisiche. Ed è soprattutto meglio confondere le acque mettendo insieme il patrimonio della (diffusa) piccola e media borghesia con quello dei ricchi veri
Le leggi di bilancio sono inevitabilmente caratterizzate dalla ricerca spasmodica di risorse nella consapevolezza che esse sono sempre inferiori alle necessità. Il governo, nel rimarcare i risultati della stabilità cui contribuisce oggi una manovra austera, manifesta al tempo stesso l’orgoglio di «chiedere di più a chi ha di più». Che qui vuol dire le banche e le assicurazioni. Attività certo oggi assai profittevoli; ma va detto che larghi profitti li fanno anche altri settori (prime fra tutti le Big Tech Usa, che il governo si guarda bene dall’infastidire).
Sennonchè fra quelli che “hanno di più” ci sono anche – e direi soprattutto – le persone fisiche, quelle appartenenti al famoso 0,1 per cento, che continuano a viaggiare indisturbate in un sistema fiscale, quello italiano, che le tratta in guanti così bianchi che più bianchi non si può. Le imposte a questi applicabili sono solo quelle sul reddito che ammontano, nel peggiore dei casi, al 43 per cento.
Contributi diversi
Ma il sistema è ricco di misure inferiori e forfettizzate che riducono questa aliquota al 21 per cento per i redditi immobiliari (in alcuni casi anche al 5 per cento) ed al 26 per cento per quelli finanziari (ed anche al 12,5 per cento per gli investimenti in titoli di Stato). Eccezion fatta per l’Imu (che pesa per meno del 1 per cento del valore catastale e con tante esenzioni), non c’è nessuna tassazione sul patrimonio.
Vale a dire che chi ha un patrimonio di 100 milioni e non lo mette a reddito paga esattamente quanto chi non ha nulla: zero in entrambi i casi. E così entrambi beneficiano dell’esistenza del sistema paese (assistenza sanitaria, mezzi di trasporto a buon mercato, tribunali, polizia, scuole, etc.); ma, non contribuendovi, semplicemente pesano sulla collettività. Ma il primo non ha difficoltà ad ottenere un prestito per fare un’operazione salva vita o andare in vacanza. Niente da fare per il secondo, che può solo sperare che il comune gli riservi un posto al camposanto.
Sono uguali queste situazioni? Chi ha molto ma non consegue redditi ha la medesima capacità contributiva (leggasi pagare una quota appropriata di spese pubbliche) di chi non ha nulla? Nel mondo si va diffondendo il pensiero che queste situazioni non meritano lo stesso trattamento.
In Francia, l’economista Gabriel Zucman ha proposto di tassare al 2 per cento tutti patrimoni superiori a 100 milioni di euro. Se essi sono messi a frutto l’imposta sul reddito pagata sul frutto ottenuto va a ridurre l’imposta patrimoniale. Cioè se i 100 milioni sono investiti, per fare un esempio italianizzato, in BTP al 5 per cento (rendimento 5 milioni) e su di essi è stata applicata un’imposta sul reddito del 12,5 per cento (pari a 0,625 milioni), l’imposta patrimoniale sarà dovuta solo sulla differenza fra quanto già pagato (0,625 milioni) e quanto dovuto a titolo di imposta patrimoniale (2,0 milioni).
La cosiddetta tassa Zucman è stata posta dal partito socialista francese come condizione per l’adesione al governo Lecornou; ma al momento sembrerebbe non accolta.
Anche il neosindaco newyorkese Mamdani ha annunciato qualcosa del genere perché il fenomeno dell’accentuarsi delle distanze fra il primo 0,1 per cento ed il resto del genere umano richiede un qualche intervento teso, se non ad azzerare, quantomeno a mitigare questo spaventoso divario. Vivace è, comunque, il dibattito sul tema da parte degli economisti, anche americani (Stiglitz e Krugman in testa).
Il silenzio italiano
Di questa situazione pare, invece, non preoccuparsi affatto il ceto politico italiano. Il governo, che pure proclama di chiedere «di più a chi ha di più», si guarda bene anche solo dal discutere della cosa. Ha varato una riforma fiscale in cui si è scrupolosamente evitato di parlare di catasto e delle storture che esso contiene e che nessuno, anche in ambito governativo, nega. Ma guai a correggerle.
La riforma si estende anche all’imposta di successione: ma solo per definirne alcune modalità applicative, lasciando che l’aliquota base resti al 4 per cento (la minore in assoluto fra i paesi del nostro rango) e con una franchigia di 1 milione (la maggiore in assoluto nello stesso ambito). Langue anche l’opposizione che quando si parla di patrimoniale si è abituata a girarsi dall’altro lato.
Modesto il dibattito scientifico, con qualche rara eccezione (tipo quella del seminario indetto presso l’Università Cattolica di Milano il 13 novembre). Insomma, meglio prendersela con le banche che, alla fin fine non votano, che con le persone fisiche, che sono tante e votano.
E meglio, soprattutto, confondere un po’ le acque mettendo insieme il patrimonio della (diffusa) piccola e media borghesia (discreti redditi e modesti patrimoni) con quello dei ricchi veri (redditi tassati a forfait e grandi patrimoni adeguatamente schermati). Così si può fingere di difendere la collettività contro gli espropri proletari mentre in realtà si privilegiano i pochissimi e ricchissimi che sanno come ricambiare.














