La convinzione che una tassazione progressiva e una maggiore imposizione sulle rendite finanziarie e sui patrimoni determinino automaticamente la fuga dei capitali, la perdita di occupazione e il declino del benessere economico non trova conferma nei dati empirici. Al contrario, numerose ricerche dimostrano che l’equilibrio fiscale ottenuto attraverso una distribuzione più equa del carico tributario contribuisce a una crescita economica più stabile e sostenibile. L’idea che le imposte progressive inducano i contribuenti ad abbandonare il proprio paese per rifugiarsi in giurisdizioni a fiscalità agevolata è stata ampiamente discussa, ma studi condotti dal Center on Budget and Policy Priorities (CBPP) e dalla London School of Economics indicano che i fattori fiscali sono raramente l’unica o principale motivazione della mobilità di capitali e individui facoltosi. Le scelte residenziali rispondono a variabili complesse, che includono la qualità dei servizi pubblici, il sistema educativo, la sicurezza e le reti sociali.
In questo contesto, l’introduzione di imposte sulle rendite finanziarie e sui patrimoni può costituire uno strumento efficace per ridurre le disuguaglianze, soprattutto se applicata in modo coordinato tra gli Stati membri dell’Europa. L’economista Gabriel Zucman ha stimato che una tassa patrimoniale europea, anche con una moderata aliquota, potrebbe generare entrate significative senza indurre fughe di capitali rilevanti (Zucman, 2019). Le esperienze nazionali, come quella francese con l’ISF, non dimostrano l’inevitabilità dell’insuccesso, ma evidenziano la necessità di una progettazione attenta e tecnicamente adeguata.
Un confronto internazionale aiuta a comprendere meglio i limiti e le potenzialità delle imposte patrimoniali. In Francia, l’ISF (Impôt de Solidarité sur la Fortune), abolito nel 2017 e sostituito dall’IFI (Impôt sur la Fortune Immobilière), tassava il patrimonio netto superiore a 1,3 milioni di euro, con aliquote progressive fino all’1,5%. Il gettito era modesto (circa lo 0,2% del PIL), ma simbolicamente rilevante. In Spagna l’imposta patrimoniale, reintrodotta dopo il 2008, varia per soglia e aliquote tra le Comunità Autonome, con esenzioni totali a Madrid e piena applicazione in Catalogna. In Norvegia e Svizzera l’imposta patrimoniale è più consolidata: in Norvegia si applica con una soglia relativamente bassa e gode di ampio consenso sociale; in Svizzera è gestita a livello cantonale, ma è considerata stabile e ben accettata.
Tali esempi mostrano che un’imposta patrimoniale può essere efficace e sostenibile se ben disegnata, proporzionata e legittimata socialmente. La trasparenza, la semplicità e l’integrazione con altri strumenti progressivi (come le imposte su successioni e capital gains) sono fattori chiave per evitarne l’elusione e massimizzarne l’equità.
Tuttavia, la presenza di paradisi fiscali all’interno dell’Unione Europea – come Irlanda, Paesi Bassi, Lussemburgo e Malta – mina le politiche redistributive degli Stati a fiscalità ordinaria. Queste giurisdizioni, offrendo regimi estremamente favorevoli, facilitano la pianificazione fiscale aggressiva e la riduzione artificiosa della base imponibile, con conseguenze distorsive per il mercato unico e la solidarietà europea.
Particolarmente significativa è la questione della tassazione delle grandi multinazionali del settore digitale e del commercio elettronico. Aziende come Google, Apple, Amazon e Meta hanno spesso concentrato i profitti in paesi a bassa tassazione attraverso strategie di profit shifting, sfruttando le lacune normative dei sistemi fiscali nazionali e internazionali. Questo fenomeno ha sollevato ampie critiche da parte della dottrina economico-giuridica, che ha sottolineato la necessità di superare il criterio della “presenza fisica” per definire la soggettività passiva di imposta.
A livello europeo, oltre alla proposta BEFIT (Business in Europe: Framework for Income Taxation), che intende introdurre una base imponibile consolidata comune per le multinazionali operanti nell’UE, si segnala l’iniziativa della Digital Services Tax (DST), proposta da diverse giurisdizioni (tra cui Francia, Italia e Spagna) come imposta provvisoria in attesa di una soluzione globale. La DST, nella formulazione italiana (Legge n. 160/2019), si applica ai ricavi derivanti da servizi digitali, come la pubblicità online, l’intermediazione digitale e la vendita di dati generati da utenti.
A livello OCSE, il cosiddetto “Pillar One” mira a riassegnare parte dei profitti delle grandi multinazionali ai paesi in cui risiedono gli utenti e i consumatori, introducendo il concetto di “presenza economica significativa”. La dottrina ha proposto anche modelli alternativi, come l’imposta unitaria con ripartizione (formulary apportionment), che si basa sulla ripartizione del profitto globale delle multinazionali secondo parametri oggettivi (fatturato, dipendenti, utenti), superando il concetto di stabile organizzazione (Avi-Yonah, 2000).
Una crescente evidenza empirica suggerisce che non è la tassazione progressiva a frenare la crescita economica, bensì le disuguaglianze stesse. Il Fondo Monetario Internazionale ha più volte evidenziato che una distribuzione più equa del reddito è compatibile con una crescita più solida e sostenibile (IMF, 2014). Le disuguaglianze eccessive compromettono la coesione sociale, riducono la domanda aggregata e aumentano l’instabilità politica ed economica.
Ulteriori analisi econometriche, come quelle contenute nei lavori di Thomas Piketty (2013) e Anthony B. Atkinson (2015), dimostrano che le politiche redistributive basate sulla progressività fiscale sono associate a una maggiore mobilità sociale, a un miglioramento dell’accesso ai servizi essenziali e a una minore incidenza della povertà relativa. Inoltre, l’OCSE ha sottolineato come i sistemi fiscali progressivi ben progettati possono incrementare la produttività attraverso investimenti in capitale umano e infrastrutture pubbliche, due elementi essenziali per la competitività economica di lungo periodo (OECD, 2015).
È altresì rilevante notare che una struttura fiscale regressiva tende a colpire in misura maggiore i consumi delle fasce meno abbienti, con effetti negativi sulla domanda interna. Al contrario, la redistribuzione del reddito tramite una fiscalità progressiva agisce da stabilizzatore automatico nei cicli economici: in fasi recessive, riduce l’impatto sui consumi; in fasi espansive, contribuisce a prevenire il surriscaldamento economico.
Questa impostazione ha anche profonde implicazioni in termini di coesione e pace sociale. Quando le disuguaglianze si ampliano e una parte significativa della popolazione percepisce il sistema fiscale come ingiusto e sbilanciato a favore delle élite economiche, si creano condizioni favorevoli a tensioni sociali, polarizzazione politica e conflitti civili. Una tassazione equa, progressiva e armonizzata a livello europeo può agire da strumento di prevenzione dei conflitti sociali, garantendo maggiore fiducia nelle istituzioni e una distribuzione più equa delle risorse. Come evidenziato in numerosi rapporti della Banca Mondiale e dell’UNDP, l’equità fiscale è una componente chiave della stabilità democratica e del mantenimento della pace in contesti pluralistici e globalizzati.
Pertanto, un sistema fiscale più equo e coordinato a livello europeo, basato sulla progressività e sull’ampliamento della base imponibile alle rendite e ai patrimoni, non solo è compatibile con la crescita economica, ma rappresenta una condizione necessaria per ridurre le disuguaglianze e preservare la coesione sociale. Contrastare l’elusione fiscale delle multinazionali e armonizzare le politiche tributarie sono passaggi imprescindibili per garantire una giustizia fiscale capace di sostenere uno sviluppo realmente inclusivo e duraturo nell’Unione Europea