Di Francesco Ferrari
L’articolo 15 è dedicato alla revisione delle disposizioni che attualmente regolano il procedimento accertativo. Le disposizioni contenute nella lettera b) sembrano replicare, nella sostanza, quelle già contenute nell’articolo 4, già commentate, mentre quelle delle lettere c) ed e) sembrano voler consentire una revisione della normativa che attualmente regola la possibilità di ampliare l’utilizzo dei dati disponibili all’Agenzia delle entrate per l’attività di analisi del rischio e di contrasto all’evasione fiscale.
La lettera f) prevede significative modifiche al regime di adempimento collaborativo tra cui la più significativa appare a previsione di riduzione progressiva della soglia dimensionale di accesso al regime; benché la norma preveda di dotare l’Agenzia delle entrate di “adeguate risorse” non può non osservarsi come la soglia di accesso attualmente prevista è stato calibrata proprio in funzione della complessità della procedura e della conseguente necessità di disporre, da parte dell’Agenzia delle entrate, di risorse umane con elevata specializzazione in grado di presidiarla. Il rischio è quindi quello di veder svilita la procedura a causa della non immediatamente raggiungibile capacità, da parte dell’amministrazione finanziaria, di gestire il delicato procedimento. È di tutta evidenza, infatti, che una significativa estensione dell’istituto dovrà per forza prevedere l’attribuzione delle competenze in materia quanto meno alle Direzioni Regionali dell’Agenzia che potrebbero non disporre al momento delle necessarie professionalità. In tal senso il sistema fiscale continua a pagare lo scotto dei blocchi alle assunzioni conseguenti l’attuazione della “spending review” che ha comportato (in tutte le amministrazioni pubbliche) sia la progressiva elevazione dell’età anagrafica media dei funzionari, sia la significativa riduzione numerica degli stessi. Benché l’Agenzia delle entrate abbia oggi intrapreso un ambizioso piano di assunzioni, si deve comunque considerare che il raggiungimento di un livello di competenze adeguato alla gestione dei procedimenti più complessi, con un focus specifico sulla fiscalità finanziaria e internazionale, non può essere completato nell’arco di pochi mesi. Ne consegue che un allargamento della platea destinataria della specifica policy dovrà essere calibrata tenendo conto non solo dell’andamento previsto delle assunzioni da parte dell’Agenzia delle entrate, ma anche di un necessario delay che consenta ai nuovi immessi di acquisire le necessarie competenze.
La lettera g), asseritamente destinata a prevedere norme volte ad assicurare la “certezza del diritto”, si propone di intervenire, in realtà, con disposizioni puntuali, dotate di scarso respiro, per scongiurare gli effetti di interpretazioni giurisprudenziali, in vero, a volte quanto meno singolari.
Il numero 1, nella sostanza, delega il governo ad inibire la contestazione di deducibilità di costi pluriennali qualora la stessa non sia avvenuta entro il termine di decadenza previsto per l’accertamento della dichiarazione relativa a periodo di imposta in cui “si è verificato il fatto generatore”. In pratica, la norma vuole impedire che possa essere contestata la deduzione di ammortamenti quando il contribuente non è in grado di dimostrare l’effettività del costo originariamente sospeso tra le immobilizzazioni se l’acquisto è risalente nel tempo. Benché sia comprensibile la volontà di ridurre gli obblighi di conservazione della documentazione più risalente da parte del contribuente, devono osservarsi quanto meno due questioni. La prima è che l’obbligo di conservazione della documentazione contabile (2220 c.c.) è comunque superiore ai tempi di decadenza dell’attività di accertamento e che quindi la disposizione andrebbe a porre nel nulla non solo la disposizione di ultra attività dell’obbligo di conservazione contenuta nell’art. 22 del d.P.R. 600/1973, ma anche la possibilità di attribuire valenza probatoria a documentazione la cui conservazione è obbligatoria ai sensi del codice civile. La seconda è che con una simile disposizione si andrebbe a consentire una vera e propria sorta di “franchigia” qualora il “fatto generatore” si sia asseritamente verificato precedentemente alla prima annualità in cui il contribuente abbia fatto valere le quote di costo in sede di determinazione del reddito. Evidentemente, le conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione nell’ordinanza 16752 del 6 agosto 2020, non sono ritenute condivisibili dal redattore della disposizione, ma l’intervento proposto rischia inutilmente di aprire ulteriori spazi di illegalità senza intervenire in alcun modo sul regime degli oneri documentali che pure, alla luce della sempre maggiore diffusione dell’informatica, necessiterebbero di una sostanziale revisione che consenta l’esibizione e la conservazione delle scritture e dei documenti con gli stessi strumenti con cui l’azienda le produce e le gestisce.
I successivi numeri 2 e 3 si propongono di limitare l’utilizzo di talune presunzioni con l’evidente intento di contrastare le conclusioni contenute in alcune recenti pronunce di legittimità. Il numero 2 vuole evitare che la semplice constatazione di non corrispondenza dell’importo delle transazioni ai “valori di mercato” possa legittimare l’accertamento di maggiori redditi. L’intervento, quindi, vuole porre limiti alla giurisprudenza che si è formata in relazione a contestazioni basate sul “difetto di inerenza quantitativa” o sulla cosiddetta “antieconomicità”. Il numero 3, invece, vuol limitare la possibilità di presumere la distribuzione occulta di utili (anche se la norma parla di “reddito accertato”) ai soci delle società a ristretta base partecipativa, ai casi in cui l’accertamento sul reddito societario sia fondato su elementi certi e precisi che individuino o l’omessa contabilizzazione di ricavi o la deduzione di costi inesistenti. L’intento delle due disposizioni è chiaro e condivisibile, ma le modalità con cui lo stesso viene perseguito appaiono poco opportune. Ricordando che l’Italia non è un paese di “common law” e che, nella specifica materia, il giudice si pronuncia sempre in relazione ad avvisi di accertamento emessi dagli uffici, meglio sarebbe intervenire per dare disposizioni (amministrative) agli uffici per governare il processo di accertamento e non intervenire legislativamente per contrastare gli effetti di sentenze ritenute non condivisibili.
L’utilizzo delle presunzioni nell’ambito dell’accertamento tributario è ben disciplinato dall’articolo 39 del d.P.R. 600/1973 che limita i casi in cui possano essere utilizzate presunzioni semplici prive dei caratteri di gravità precisione e concordanza a quelli di omessa dichiarazione del reddito di impresa, sottrazione all’ispezione della documentazione contabile, generale inattendibilità della contabilità e mancata esibizione della documentazione agli uffici. L’utilizzabilità delle presunzioni semplici nell’ambito dell’accertamento tributario è chiaramente posta a tutela dell’interesse erariale dal legislatore che deve comunque presumere l’esistenza di una notevole asimmetria informativa tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria. Benché tale asimmetria informativa si sia negli anni ridotta grazie alla sempre maggiore disponibilità di informazioni per l’amministrazione finanziaria, la stessa non può considerarsi annullata, atteso che quello che l’amministrazione sa, o può sapere, attiene quasi sempre alla sola sfera di quanto, in un modo o nell’altro, è stato tracciato dalle parti della transazione.
Ne consegue, che il vero limite all’utilizzo delle presunzioni dovrebbe essere quello di evitare che una necessaria modalità di accertamento, si distorca fino a degradare l’accertamento del maggior reddito ad una sanzione impropria, oppure si concretizzi in una meccanica applicazione di pseudo principi giuridici che contrastano non solo con le norme, ma con la stessa ragionevolezza (come nel caso in cui venga presunta una distribuzione di utili occulti in presenza di un costo effettivamente sostenuto ma ritenuto indeducibile in sede di determinazione del reddito di impresa per violazione del principio di competenza).
Nella sostanza, quando è la stessa amministrazione a ritenere abnormi le conclusioni della giurisprudenza in casi in cui le sentenze hanno confermato l’operato degli uffici, è sulle modalità di esercizio del potere che si dovrebbe intervenire, governando il procedimento in modo che gli stessi poteri siano utilizzati in maniera funzionale ai fini per cui sono stati attribuiti, e non introducendo nel tessuto normativo, già oltremodo confuso, disposizioni volte ad intervenire su singole situazioni, evidentemente paradossali.
Un’ultima considerazione, di carattere generale, merita l’articolo 20 del disegno di legge che, nel disporre in merito alle coperture della misura, prevede che la delega venga esercitata senza aumentare la pressione tributaria e senza che dall’esercizio della stessa derivino maggiori oneri per la finanza pubblica. Tecnicamente, il rinvenimento delle “coperture” viene demandato ai singoli decreti delegati e quindi nella delega non è possibile individuare quali potrebbero essere le risorse a disposizione per attuarla.
Pur non essendo in grado di quantificare l’onere complessivo delle misure previste, è di tutta evidenza come l’impatto delle stesse difficilmente potrebbe essere compensato con una sostanziale ridistribuzione del carico fiscale. D’altronde, ritenere che le risorse possano essere rinvenute in una generale revisione delle cosiddette “tax expenditure” (esenzioni, riduzioni di imposta o di aliquota, differimenti di imposta, etc..) sembra non considerare che le stesse, altro non sono che forme tecniche di finanziamento di talune missioni del bilancio dello Stato, con la conseguenza che qualunque intervento sulle spese fiscali o vedrà ridurre l‘intervento dello Stato in uno specifico settore, o necessiterà di un intervento di erogazione sostitutivo. Lo stesso articolo 20 indica tra le fonti di finanziamento della riforma le “risorse di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 eventualmente integrate in base a quanto previsto dal comma 5”; si tratta del fondo costituito con “la quota delle maggiori entrate permanenti rispetto alle previsioni tendenziali formulate per il Documento di economia e finanza, derivanti dal miglioramento dell’adempimento spontaneo […]” ossia del fondo contenente le maggiori entrate derivanti dalla riduzione dell’evasione fiscale. Al momento non è assolutamente possibile prevedere se le azioni di prevenzione e contrasto all’evasione fiscale siano in grado di generare risorse sufficienti a finanziare le misure proposte dal disegno di legge, ma deve osservarsi come la relazione 2022 sul tax gap IVA della Commissione europea quantifichi lo stesso per l’Italia con riferimento al 2020 nel 20,8%, terzo risultato negativo in Europa dopo quelli di Romania e Malta e che il target 121 della M1C1 del PNRR prevede per il 2023 una riduzione della “propensione all’evasione” (di tutti i tributi, tranne IMU e accise) rispetto a quella del 2019 dal 18,4% al 17,48%.