La progressività del prelievo fiscale sancita dall’articolo 53 della Costituzione è ormai sempre più un miraggio. Come evidenziato anche dall’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini, in un editoriale pubblicato su Avvenire il 7 settembre 2025 con il titolo “Uguaglianza in saldo. Il fisco e la progressività svuotata”, siamo in presenza, ormai da anni, di una sistematica erosione di questo principio attraverso il moltiplicarsi di regimi sostitutivi, aliquote piatte e trattamenti differenziali che hanno finito per trasformare l’eccezione in regola, producendo una distorsione strutturale del sistema. Il dato empirico evidenziato – meno del 50% del gettito proveniente da imposte effettivamente progressive – costituisce un indicatore eloquente del processo di svuotamento della progressività. Tale processo si traduce in una sproporzionata concentrazione del carico fiscale su lavoratori dipendenti e pensionati, categorie per loro natura meno in grado di eludere o ottimizzare il prelievo, mentre redditi da lavoro autonomo, rendite finanziarie e patrimoni immobiliari beneficiano di una tassazione più favorevole, spesso in assenza di un fondamento razionale o costituzionalmente compatibile. La conseguenza è una violazione congiunta dei principi di progressività e uguaglianza, e dunque una frattura del patto di cittadinanza.
Per comprendere le radici di questa trasformazione è necessario collocarla in una prospettiva storica più ampia. Il secondo dopoguerra, in particolare il periodo 1945-1975, ha rappresentato in Europa occidentale e in Italia l’apice del compromesso tra capitalismo e democrazia sociale, con sistemi fiscali fortemente progressivi, aliquote marginali superiori al 70-80% per i redditi più alti, e un’espansione senza precedenti dello Stato sociale. Tale configurazione era sostenuta da un contesto macroeconomico di crescita sostenuta, dalla centralità del lavoro salariato e dall’equilibrio internazionale garantito dagli accordi di Bretton Woods, che limitavano i movimenti speculativi di capitale. La tassazione progressiva svolgeva una funzione redistributiva esplicita, assicurando il finanziamento di welfare e infrastrutture pubbliche, e costituiva un pilastro della stabilità sociale e politica. Studi come quelli di Atkinson (2015) e Piketty (2014) hanno ampiamente documentato come in quel trentennio le disuguaglianze si siano ridotte grazie alla combinazione di politiche fiscali progressive, espansione dell’istruzione e diritti sociali universali.
A partire dagli anni Ottanta, con la rottura del sistema di Bretton Woods e l’affermazione delle politiche neoliberiste negli Stati Uniti e nel Regno Unito, la funzione redistributiva del fisco è stata progressivamente ridimensionata. Reagan e Thatcher promossero una drastica riduzione delle aliquote marginali, una semplificazione a vantaggio dei ceti abbienti e un disegno ideologico che identificava la progressività come disincentivo all’investimento e alla crescita. Questi indirizzi si diffusero a livello globale, rafforzati dalla globalizzazione finanziaria, dalla liberalizzazione dei mercati e dalla progressiva centralità del capitale rispetto al lavoro. Autori come Stiglitz (2012) e Fitoussi, Sen e Stiglitz (2009) hanno sottolineato come tali politiche abbiano determinato non solo un aumento delle disuguaglianze, ma anche una riduzione della capacità delle economie occidentali di garantire coesione sociale e crescita sostenibile.
L’Italia, pur con le specificità del proprio ordinamento, non fu estranea a tale dinamica: le riforme fiscali degli anni Novanta e Duemila, unite alla diffusione di regimi sostitutivi e forfetari, hanno progressivamente sottratto alla base imponibile Irpef quote crescenti di reddito, alterando in profondità l’architettura del sistema tributario. I dati mostrano come le aliquote applicate ai redditi da capitale e alle rendite siano spesso inferiori a quelle gravanti sui redditi da lavoro medio, mentre la quota di gettito da imposte indirette (per loro natura regressive) è andata crescendo. Tale evoluzione ha comportato un arretramento del ruolo redistributivo dello Stato, in linea con un contesto europeo in cui la competizione fiscale tra Stati membri ha ulteriormente accentuato la pressione verso la riduzione delle aliquote sui redditi più mobili, a scapito della coerenza con i principi costituzionali e con i modelli sociali originari. La conseguenza di queste scelte è il ribaltamento del rapporto capitale-lavoro: le rendite finanziarie hanno visto una riduzione sistematica degli oneri tributari (in Italia, con aliquote sostitutive intorno al 26%, spesso inferiori a quelle applicate al lavoro dipendente medio), mentre i redditi da lavoro e da pensione hanno continuato a sostenere la gran parte del gettito, in un contesto di stagnazione salariale e di precarizzazione crescente.
Tale squilibrio riflette il predominio delle politiche liberiste sulle politiche sociali negli ultimi trent’anni, con il risultato che il capitale, nelle sue varie configurazioni, ha prevalso sul lavoro, non solo sul piano della distribuzione del reddito ma anche su quello della regolazione istituzionale.
Il contributo di Ruffini, basato su una puntuale analisi tecnica, ci consente di riaffermare con forza che senza una fiscalità progressiva ed equa non esiste coesione sociale, non esiste rispetto della Costituzione, non esiste democrazia sostanziale. Le proposte avanzate – dalla definizione di indicatori di progressività alla ricomposizione della base Irpef, dalla limitazione dei regimi speciali alla necessità di una cooperazione europea contro la concorrenza fiscale – vanno nella direzione di restituire al fisco la sua funzione originaria. In assenza di tali correttivi, come ha ricordato Piketty (2019), le società rischiano di scivolare in una “nuova Belle Époque” caratterizzata da disuguaglianze estreme, in cui l’uguaglianza è ridotta a formula retorica e la progressività a eccezione residuale.