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giovedì 1 Maggio 2025
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Piattaforme social: procura Milano accusa gruppo Meta per presunta evasione fiscale da 3,9 miliardi

di Angelo Mincuzzi

(Il Sole 24 Ore) – I dati sugli utenti che si iscrivono gratuitamente ai social network rappresentano un’ importante fonte di ricavo indiretto per le web companies. E dunque le piattaforme devono versare l’Iva sugli utili ottenuti grazie alla profilazione dei clienti. È sulla base di questo presupposto che la Procura di Milano ha chiuso ieri l’indagine su una presunta evasione fiscale avviata più di due anni fa nei confronti del gruppo Meta, il colosso statunitense del web che possiede Facebook, Instagram, Whatsapp e Messenger.
I magistrati contestano alla società Meta Platforms Ireland di Dublino (dove arrivano i ricavi realizzati dai social network in Italia e negli altri paesi del mondo con l’eccezione degli Usa) di aver omesso la dichiarazione di oltre 3,9 miliardi di imponibile fiscale e di aver evaso il pagamento di 887,6 milioni di euro di Iva nel periodo tra il 2015 e il 2021. Come è emerso in questi mesi, l’indagine della Procura di Milano presenta una forte connotazione innovativa perché per la prima volta i dati raccolti dalla profilazione degli utenti delle piattaforme internet vengono considerati rilevanti ai fini fiscali. L’inchiesta appena chiusa rappresenta un test importante che potrebbe presto coinvolgere anche le altre web companies. È, insomma, un’indagine apripista.
La presunta evasione fiscale è emersa in seguito agli accertamenti compiuti dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Milano. I pm Giovanni Polizzi e Cristian Barilli hanno così notificato l’avviso di conclusione delle indagini nei confronti di Maria Farruggia Fallon e Gareth Lambe, che sono stati i rappresentanti legali della società irlandese del gruppo Meta nel periodo al centro delle investigazioni.
Le indagini hanno accertato «come il gruppo Meta, per consentire agli utenti l’utilizzo del proprio software e dei correlati servizi digitali, acquisisca e gestisca, per scopi commerciali, dati, informazioni personali e interazioni sulle piattaforme di ciascun iscritto, così da instaurare con i fruitori del servizio» un rapporto definito dagli inquirenti «di natura sinallagmatica». I contratti sinallagmatici sono particolari categorie di accordi in cui le prestazioni dovute dalle parti sono tra loro connesse, al punto che l’una costituisce il corrispettivo dell’altra.
L’Iva non versata dal gruppo Meta riguarda infatti l’iscrizione degli utenti alle piattaforme social. Iscrizioni che avvengono gratuitamente ma l’utente in realtà paga una specie di “fee”, perché mette a disposizione i propri dati personali che poi vengono profilati. È proprio attraverso questo scambio, formalmente gratuito, che Meta può trarre un profitto. Guadagni che, in base a valutazioni giuridiche e fiscali, devono essere tassati, secondo i pm, con l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, che Meta, invece, negli anni non ha mai versato.
Come ha precisato il procuratore di Milano, Marcello Viola, «la natura non gratuita dei servizi offerti da Meta» era già stata rilevata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nel 2018 e dal Tar del Lazio nel 2021.
Ha poi trovato riscontro nelle attività ispettive della Guardia di Finanza, negli atti dell’Agenzia delle Entrate e nelle risultanze dell’indagine.
Meta, naturalmente, contesta questa impostazione. Un portavoce della società ha dichiarato che il gruppo Usa ha «collaborato pienamente con le autorità rispetto ai nostri obblighi derivanti dalla legislazione europea e nazionale e continueremo a farlo. Prendiamo sul serio i nostri obblighi fiscali e paghiamo tutte le imposte richieste in ciascuno dei Paesi in cui operiamo. Siamo fortemente in disaccordo con l’idea che l’accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’Iva».

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