In materia di recupero dell’Iva versata all’Erario, da parte di quei fornitori che hanno ceduto beni o effettuato prestazioni di servizi nei confronti di altri operatori economici risultati insolventi, il decreto sostegni bis anticipa il momento di detto recupero, che riguarda, sostanzialmente, un’imposta versata ma mai incassata. Trattasi di una piccola consolazione per quei fornitori che non solo non sono stati pagati dai loro clienti, ma hanno dovuto anche versare l’Iva sulla fornitura. Nella pratica commerciale, i fornitori, per
esigere il proprio credito, emettono fattura nei confronti del cliente e, conseguentemente, restano obbligati al versamento dell’Iva in essa esposta, anche se il cliente non paga. Perciò, il “sostegni-bis” è opportunamente intervenuto sull’art. 26 del Dpr 633/1972, (Decreto Iva) rimodulando i presupposti che legittimano il recupero in argomento. Tale novella è il frutto di una travagliata evoluzione legislativa, non priva di tentennamenti da parte del legislatore italiano, “compulsato” anche dalle statuizioni della Corte di Giustizia dell’Ue. Per la verità, quanto stabilito in argomento dal “Sostegni-bis” era già stato previsto dalla legge di bilancio per il 2016, a valere dall’1 gennaio 2017, ma la legge di bilancio per il 2017 aveva decretato l’”aborto” di tale novella. Riguardo al contributo dei giudici europei, si evidenzia che la sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue (Cge) dell’11 giugno 2020, pronunciata nella causa C-146/19, ha fissato importanti principi di diritto che hanno segnato anche l’evoluzione legislativa domestica concernente la materia delle rettifiche Iva.
La Corte europea ha sottolineato che l’art. 90, primo paragrafo, della Direttiva Iva (Direttiva n. 2006/112) stabilisce che, poiché la base imponibile dell’Iva è costituita dalla controprestazione ricevuta dal cedente/prestatore, in caso di sopravvenute variazioni delle
pattuizioni contrattuali, gli Stati membri possono autorizzare variazioni dell’imponibile stabilendone le condizioni; il paragrafo secondo autorizza gli stati membri a derogare a tale principio quando, pur nell’invarianza delle pattuizioni contrattuali, il prezzo non è stato pagato in tutto o in parte. Corollario di ciò è il principio per il quale l’Erario non può incassare di più di quanto il soggetto passivo, cioè il cedente o prestatore, abbia incassato, pena la violazione del principio della neutralità dell’Iva. Pertanto, gli Stati membri sono autorizzati a stabilire le condizioni alle quali le variazioni dell’imponibile e dell’imposta possono essere effettuate. Tali condizioni, secondo i chiarimenti della Cge, sono giustificate dalle eventuali incertezze giuridiche circa l’effettivo pagamento o laddove il mancato pagamento sia solo un fatto temporaneo. In ogni caso, come chiarito dalla stessa Che (Ordinanza del 24 ottobre 2019, causa C-292/19), tale esigenza di cautela non pone alcun dubbio circa la possibilità per il creditore di ridurre la base imponibile in caso di effettivo mancato pagamento. Le suddette ragioni di cautela sono state utilizzate un po’ da tutti gli Stati dell’Ue, tra cui l’Italia, al fine di introdurre negli Ordinamenti domestici disposizioni volte a preservare l’effettiva riscossione dell’Iva, mediante prescrizioni che fornissero certezza al mancato incasso del credito da parte del fornitore.
In particolare, l’art. 26 del Dpr n. 633/1972, nel testo vigente fino al 26 maggio scorso, al comma 2, ultimo periodo, prescriveva il requisito dell’infruttuosità dell’escussione del credito sia nel caso di procedure esecutive individuali che di procedure concorsuali (fallimento, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo, accordo di ristrutturazione del debito, piano asseverato). Orbene, poiché i fornitori, al fine di recuperare il proprio credito nei confronti di un cliente sottoposto a procedura concorsuale, sono costretti ad emettere fattura (anche laddove, come per le prestazioni di servizi, tale obbligo sorge solo al momento del pagamento), con il conseguente obbligo di versare l’Iva esposta in fattura ma per poterla recuperare, finora, dovevano attendere la conclusione della procedura concorsuale, in quanto solo al termine della procedura stessa si aveva certezza dll’”an” e del “quantum” della falcidia del credito. Ciò creava una ingiustizia sostanziale, perchè in molti casi era palese che il creditore non avrebbe potuto mai incassare quanto gli era dovuto, ma ciò nonostante doveva attendere spesso molti anni, a causa dei tempi biblici delle procedure concorsuali, per potere recuperare l’Iva anticipata all’Erario. La novella dell’art. 26 del Decreto Iva, ad opera dell’art. 18 del decreto legge n. 73 del 25 maggio scorso, a valere per le procedure avviate successivamente a tale data, ha introdotto il comma 3-bis, che differenzia tra procedure concorsuali e procedure esecutive individuali. Per queste ultime resta confermato il presupposto dell’infruttuosità, di cui il successivo comma 12 ne specifica i presupposti (quando dal verbale di pignoramento redatto dall’ufficiale giudiziario risulti la mancanza di beni da pignorare, l’irreperibilità del debitore o l’impossibilità di accesso al suo domicilio, mentre in caso di vendita all’incanto, quando sono andate deserte tre aste e si decide di interrompere la vendita per eccessiva onerosità).
Nel caso di procedure concorsuali, invece, il creditore, con riferimento alle procedure iniziate dal 26 maggio scorso, può emettere nota di credito dalla data di inizio della procedura stessa (deposito della sentenza di fallimento, del decreto di ammissione al concordato preventivo, all’amministrazione straordinaria o alla liquidazione coatta). Per le procedure “paraconcorsuali”, invero, si registra una sostanziale invarianza di disciplina, in quanto occorre attendere comunque il decreto di omologa dell’accordo di ristrutturazione del debito il deposito presso il registro delle imprese del piano asseverato. Inoltre, con la suddetta novella legislativa si è posta la parola fine anche ad un’altra delle vicende legislative più tormentate degli ultimi anni, concernente l’obbligo per il debitore assoggettato a procedura concorsuale di riversare all’Erario l’Iva detratta in assenza dell’effettivo pagamento al fornitore che l’aveva versata senza incassarla. Riguardo anche a tale problematica, il legislatore ha più volte tentennato. Infatti, La legge n. 208/2015 aveva provato a disciplinare anche tale profilo, introducendo una modifica all’art. 26 del Decreto Iva, stabilendo (secondo periodo del comma 5 dell’articolo 26, con effetto peraltro dall’1 gennaio 2017) che l’obbligo per il debitore insolvente di restituire l’Iva detratta all’Erario non valeva per i debitori assoggettati a procedure concorsuali. Senonchè, l’art. 1, comma 567
della legge n. 232 dell’11/12/2016 (legge di bilancio per il 2017) aveva espunto dal testo dell’art. 26 anche la novella da ultima citata, la quale, di fatto, non è mai entrata in vigore.
In ogni caso, l’Agenzia delle Entrate, in via interpretativa, aveva cercato già da alcuni lustri di risolvere la problematica, chiarendo, con le Risoluzioni n. 155 (relativa ad un fallimento) e n. 161 (relativa ad un concordato preventivo), ambedue del 2001, che il debito sorto per effetto dell’emissione da parte del creditore della nota di credito al termine della procedura non determinava, in capo al debitore in procedura concorsuale, l’obbligo di riversamento all’Erario, grazie all’effetto di esdebitazione di cui all’art. 184 L.F. Tuttavia, solo dal 26 maggio scorso, grazie all’integrazione del comma 5 dell’art. 26 del Decreto Iva, è stato stabilito per legge che i debitori assoggettati a procedure concorsuali, che ricevono la nota di variazione in diminuzione da parte del creditore, non sono più obbligati al riversamento all’Erario dell’Iva già detratta, pur in assenza di pagamento al fornitore. Trattasi di una novella che vuole alleggerire le pendenze a carico dei debitori in procedura concorsuale, non aggiungendo alla debitoria complessiva anche il debito Iva corrispondente alle note di variazione emesse dai creditori. In definitiva, l’Iva non pagata dai debitori in procedure
concorsuali rimane a carico dell’Erario, il quale contribuirà anche per questa via (oltrechè mediante eventuali transazioni fiscali ex art. 182-ter L.F.) alla composizione della crisi d’impresa.
Infine, va rilevato che la Cge nella succitata sentenza dell’11 giugno 2020, pronunciata nella causa C-146/19, ha stabilito che in caso di assoggettamento del debitore a procedura concorsuale, l’insinuazione al passivo della procedura da parte del creditore non è requisito indefettibile per potere eseguire la variazione in diminuzione dell’Iva versata all’Erario, tutte le volte che il fornitore possa dimostrare che anche in caso di suo concorso il proprio credito sarebbe rimasto insoddisfatto. Infatti, attribuire all’insinuazione una funzione pregiudiziale andrebbe al di là di quanto ragionevolmente necessario a garantire la corretta
riscossione dell’Iva (criterio di proporzionalità tra la misura adottata e lo scopo da conseguire). Per tale motivo, il nuovo comma 3-bis dell’art. 26 del Decreto IVA non fa alcun riferimento all’insinuazione al passivo da parte del creditore. Tuttavia, a parere di chi
scrive, poiché l’onere del mancato pagamento dell’Iva da parte del debitore insolvente ricade sull’Erario, quest’ultimo potrebbe pretendere da parte del creditore un comportamento diligente, volto a compiere, nell’ambito di un criterio di proporzionalità ed
economicità, ogni sforzo per recuperare l’Iva dal debitore e, quindi, limitare la misura della variazione in diminuzione, ai sensi del comma 2 dell’art. 26 succitato.