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sabato 18 Maggio 2024
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Web tax, tra rischi di doppia imposizione e sovrapposizioni con l’Iva

La digital tax, il cui primo versamento è scaduto lo scorso 16 maggio, presenta alcuni elementi di criticità sia in relazione al tema della doppia imposizione che al profilo di una eventuale sovrapposizione con l’Iva. La nuova imposta introdotta nelle more della definizione di un quadro normativo a livello internazionale, si inserisce, dunque, in un quadro non ancora definito e in rapida evoluzione. La scelta dell’Italia ed altri Paesi di muoversi in ordine sparso senza un adeguato coordinamento a livello internazionale delle singole discipline domestiche, implica perciò il rischio di sovrapposizioni. Normalmente il rischio di doppia imposizione o di nessuna imposizione è scongiurato da specifici trattati internazionali, ossia, dalle convenzioni contro la doppia imposizione, che sono stipulate sulla falsariga del modello standard di convenzione redatto dall’Ocse. E’ opportuno evidenziare che quando tra due Stati intercorre una siffatta convenzione, le previsioni in essa contenute prevalgono per specialità sulle discipline nazionali. Nel caso della digital tax, però, tali convenzioni non sembrano applicabili. Per giungere a tale conclusione, occorre chiarire quale sia la natura della digital tax e quali siano le imposte ricomprese nelle suddette convenzioni. Come sostenuto dalla dottrina prevalente e chiarito anche dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 3/E del 2021, al par. 10, la digital tax, quale imposta sui ricavi lordi, si configura come imposta indiretta. Tanto è vero che essa colpisce i ricavi al netto dell’Iva, che è l’imposta indiretta sugli scambi che grava tipicamente sulle operazioni compiute da soggetti che esercitano attività di impresa. Ad abbundantiam, si consideri che il comma 44 della legge di bilancio per il 2019 ha stabilito che ai fini dell’accertamento, delle sanzioni, della riscossione e del contenzioso concernente la digital tax, si rendono applicabili, in quanto compatibili, le disposizioni previste per l’Iva.

Tanto considerato, occorre rammentare che l’ambito di applicazione oggettivo delle Convenzioni è individuato dall’articolo 2, paragrafo 1 del Modello Ocse, che fa riferimento alle imposte sul reddito e sul patrimonio applicate da uno Stato contraente. Il successivo paragrafo 3 chiarisce che sono tali le imposte su tutto il reddito o patrimonio, ovvero su alcuni elementi, mentre il terzo paragrafo attribuisce agli Stati contraenti il compito di elencare le rispettive imposte che si intendono coperte dal Trattato. Inoltre, tenuto conto della costante evoluzione dei sistemi fiscali dei singoli Stati contraenti, il paragrafo 4 dello stesso articolo 2 del Modello Ocse prevede che si considerano incluse nel Trattato tutte le imposte identiche o similari introdotte dopo la firma dell’accordo
internazionale, in sostituzione o in aggiunta di quelle esistenti ivi elencate. Orbene, l’imposta sui servizi digitali non compare nelle Convenzioni concluse dall’Italia e non può neppure ritenersi inclusa nel relativo ambito applicativo per l’assimilazione operata dal
citato paragrafo 4. Di conseguenza, il rischio di doppia imposizione è molto concreto, soprattutto allorquando l’impresa che subisce in Italia l’imposizione del 3% sui ricavi lordi, nel proprio Paese di residenza, sia tassata anche sui profitti. D’altra parte, non essendo la digital tax un’imposta sul reddito, ad essa non sono applicabili le normative interne previste per la neutralizzazione della doppia imposizione sul reddito dalle discipline nazionali, come il credito d’imposta per le imposte pagate a titolo definitivo all’estero, vigente in Italia (art. 165 D.P.R. n. 917/1986 – Testo unico delle imposte sul reddito).

In ogni caso, come chiarito al succitato par. 10 della Circolare 3/E, essendo l’imposta sui servizi digitali un’imposta indiretta, in assenza di uno specifico divieto in tal senso, essa è deducibile dall’imponibile Ires ai sensi dell’art. 99 del Tuir, nell’esercizio di effettivo pagamento (criterio di cassa). Così come ne è ammessa la deduzione dall’Irap, laddove venga classificata tra le voci di costo rilevanti ai fini di detto tributo (ad esempio, alla voce B14 del conto economico: oneri diversi di gestione). Da ultimo, si segnala che si potrebbe porre un ulteriore profilo problematico, circa la sovrapponibilità dell’imposta sui servizi digitali all’Iva.
Sull’argomento si ritiene che tale rischio di sovrapposizione possa ritenerrsi scongiurato alla luce di quanto stabilito in una fattispecie analoga dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel lontano 2005, in merito alla prospettata sovrapposizione tra l’Irap e l’Iva, intesa come imposta sulla cifra d’affari. In quella occasione fu chiarito dalla Corte europea che il valore aggiunto colpito dall’Iva ha natura di margine commerciale lordo (differenza tra il prezzo di vendita e di acquisto di una merce), mentre il valore della produzione netta, che costituisce l’imponibile Irap, ha natura di reddito operativo lordo. Nel caso della digital tax, come detto, l’imponibile è costituito da ricavi lordi, ancorchè individuati per cassa, i quali, tuttavia, non costituiscono esattamente la cifra d’affari, né, tantomeno, la digital tax si connota come imposta sui consumi, in quanto, diversamente dall’Iva, non ne è prevista la rivalsa obbligatoria sul consumatore finale.

La digital tax italiana introdotta dopo una lunga “gestazione” (si è partiti dall’articolo 1, commi da 35 a 50, della legge 30 dicembre
2018, n. 145, poi modificata dall’articolo 1, comma 678, della legge del 27 dicembre 2019, n. 160, infine integrato dall’articolo 2 del decreto legge 14 gennaio 2021, n. 3), prevede un’aliquota del 3% sui ricavi lordi, afferenti a determinati servizi digitali, fruiti mediante dispositivi geolocalizzati sul territorio italiano. L’imposta colpisce i ricavi afferenti a tre categorie di servizi digitali: 1) i messaggi pubblicitari mirati, diretti agli utenti di un interfaccia digitale; 2) la messa a disposizione di un interfaccia multilaterale che facilità la comunicazione tra gli utenti, compresa la fornitura diretta di beni e servizi; 3) la trasmissione di dati digitali, raccolti dagli utenti e generati dall’utilizzo di un interfaccia digitale nei confronti dei suoi utenti. E’ opportuno sottolineare che è escluso dal campo applicativo dell’imposta tutto il c.d. “commercio elettronico indiretto”, cioè le cessioni di beni e di servizi per i quali il web funge soltanto da veicolo degli ordinativi, così come i servizi resi verso società del medesimo gruppo e tutti i servizi di pagamento (per una specificazione dei servizi colpiti dalla digital tax, si veda il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 15 gennaio scorso prot. 13185/2021). I soggetti obbligati a versare la digital tax italiana sono tutti coloro che nell’esercizio di un’attività d’impresa hanno realizzato, nell’anno precedente a quello di effettuazione delle operazioni sopra succintamente indicate, ovunque nel mondo, singolarmente o a livello di gruppo, ricavi per almeno 750 milioni di euro e percepiscono nel medesimo periodo ricavi per servizi digitali localizzati nel territorio italiano per almeno 5,5 milioni di euro. Va precisato che mentre la soglia dei ricavi a livello mondiale va calcolata secondo il criterio della competenza, la soglia dei ricavi localizzati in Italia va calcolata secondo un criterio di cassa.

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