Fisco Equo pubblica una analisi sulla riforma del penale tributario di Fabio Di Vizio* che evidenzia gli aspetti critici e le incongruenze della nuova normativa (Vai al documento).
Tanto tuonò che piovve. Dopo mesi di gestazione, ripensamenti e rinvii, il decreto sulla revisione del sistema sanzionatorio tributario approvato dal Governo tutto appare fuorché un risultato capace di costruire un fisco più equo e trasparente. Quel che emerge dallo schema è anzi la volontà di distinguere l’evasione in distinte categorie normative, ricollegando alle diverse forme di essa, come ora classificate, sanzioni differenti. Con il rischio, concreto, di operare distinzioni fra evasori di serie A e serie B: la sanzione penale rischia di essere riservata solo a questi ultimi che non riescono a sfruttare scaltramente le pieghe del diritto. I meno avveduti ma non necessariamente i più infedeli. Per gli altri, accorte e precostituite forme di falsità, rispetto a quella fiscalmente corretta, possono condurre ad una verità: l’immunità penale. Il risultato è una riforma nel complesso ingenua e poggiata su basi affatto solide, che al netto di alcune positive innovazioni, non riduce ma incrementa alcuni elementi di arbitrarietà. Per esprimere un giudizio compiuto e il più possibile oggettivo, tuttavia, non si può non tener conto del “contesto”. Specialmente quando si tratta di una materia, quella fiscale, da sempre oggetto di interessi e pressioni da parte di una vasta platea di corpi intermedi e categorie professionali. E benché il prodotto finale appaia nel complesso modesto, alcune novità costituiscono un passo in avanti rispetto al “lungo sonno” conosciuto fino ad oggi.
Più nel dettaglio lo schema di decreto si concentra sulla rimodulazione delle soglie di irrilevanza penale stabilite per i delitti previsti dal d.lgs 74/2000, introducendo peraltro alcune innovazioni che puntano a sciogliere problematiche interpretative e garantire competitività all’ordinamento italiano, le cui attuali norme, secondo il riformatore, rischiano di scoraggiare gli investimenti esteri.
Un’importante innovazione riguarda ad esempio la dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti per operazioni inesistenti: se inizialmente sembrava chiara l’intenzione di alleviarne le sanzioni, nella versione finale il delitto ha invece subito un parziale inasprimento. Nella formulazione originaria- quella presentata alla vigilia di Natale – si introduceva la rilevanza meramente amministrativa dei documenti falsi se di importo superiore a 10mila euro su base annua. Previsione poi scansata dall’esecutivo, che oltre a rimuovere la soglia di irrilevanza penale ha anche soppresso la caratteristica dell’annualità. Lo schema non pare tuttavia aver risolto alcuni problemi latenti. In primis perché non chiarisce la natura della falsità delle fatture, se ideologica o materiale. Allo stesso modo non dissolve dubbi interpretativi in merito all’evenienza di “inesistenza giuridica” a fini evasivi oppure di simulazione relativa. Così come non è chiaro se la “fittizietà” degli elementi passivi debba estendersi alle componenti negative perché fiscalmente fasulle o insussistenti. Un “silenzio” che probabilmente trova giustificazione nella volontà del legislatore di non escludere letture più estensive.
Assolutamente centrale è poi la revisione del delitto di dichiarazione infedele. Come anticipato, la riforma tende ad alleggerire il rischio penale a vantaggio di una “competizione tra ordinamenti”. E’ manifesto, dunque, che il nostro legislatore ha individuato nel rischio di punizione penale il primo disincentivo per gli investimenti stranieri nel nostro paese. Ed è proprio in linea con quest’obiettivo che si assiste ad un importante aumento delle soglie di punibilità, sia sul lato dell’imposta evasa (passando da 50 a 150mila euro) che su quello degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche attraverso l’indicazione di elementi passivi fittizi (tre milioni anziché gli attuali due).
Va poi segnalato che gli effetti della volontaria violazione di alcune regole tributarie non concorrerebbero ad integrare le soglie di punibilità penali sopracitate, quand’anche rileverebbero amministrativamente.
Questo vale in particolare nel caso di errori o eventuali scostamenti nella valutazione degli elementi attivi e passivi secondo criteri “giustificati” in bilancio o in altro documento di rilievo fiscale; oppure, in assenza di trasparenza, ove siano di lieve entità, ossia inferiori al 10%, anche se assommati superino l’importo assoluto delle soglie di punibilità sopra ricordate. Lo stesso vale in caso di violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza di elementi attivi e passivi reali o di trasgressione dei criteri di inerenza o di deducibilità di elementi attivi e passivi reali. Sembra chiara, quindi, la volontà di chiudere un occhio di fronte a valutazioni scorrette, qualsiasi importo abbiano, purché ne siano precostituiti i criteri, anche se essi stessi falsi. Due falsità, quindi, conducono ad una verità: la soppressione del rischio penale. Percorso rischioso, a dire il vero, perché servirebbe su un piatto d’argento un prezioso alibi fiscale agli evasori che intendono per sottrarre porzioni importanti dalla base imponibile. Il tutto, al riparo da ricadute penali.
Critiche simili possono essere riconosciute rispetto all’irrilevanza penale ora attribuita alla violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza di elementi attivi e passivi reali, poiché rappresentazioni contabili “creative” potranno giustificare l’errore. Si prenda ad esempio il caso di un’azienda che, per godere di un’agevolazione fiscale, faccia slittare costi e ricavi in modo tale da massimizzare gli utili nel periodo di esenzione e, conseguentemente, sottrarre base imponibile: in questo caso la violazione sarebbe intesa come puramente formale e non inquadrata penalmente. Questo perché l’indeducibilità fiscale dei costi dell’impresa, privi del requisito di competenza, non rileverà penalmente.
Originale, poi, l’esclusione della rilevanza penale in caso di violazione dei criteri d’inerenza o deducibilità di elementi attivi e passivi reali. Diversamente da quanto auspicato, la definizione di “non inerenza” resta talmente generica da includere spese di qualunque tipo, comprese quelle effettivamente sostenute ma direttamente collegate a fatti di reato. È il caso di domandarsi se sia davvero accettabile che le conseguenze della non inerenza fiscale connessa al pagamento di una tangente siano irrilevanti ai fini penali. Probabilmente il legislatore era mosso dalla volontà di escludere la rilevanza penale di erronee interpretazioni di norme tributarie o condotte comunque colpose e non fraudolente. Certo è che distinguere tra un comportamento colposo, uno volontario ma trasparente e un altro fraudolento non è impresa tanto semplice e non è assurdo pensare che questo problema genererà complicazioni probatorie di non poco conto. Specie nei casi in cui il contribuente si precostituisca l’alibi fiscale, condotta che segnala uno sviluppato e certo non tranquillizzante contegno antagonista.
Quanto alla dichiarazione omessa, il decreto introduce un significativo inasprimento della pena detentiva – salita da un minimo di 18 mesi a quattro anni- che al contempo è mitigato da un aumento della soglia di irrilevanza penale, che passa da 30 a 50mila euro su base annuale.
Diverso il discorso relativo alla dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e alle operazioni abusive: qui il Governo introduce una serie di innovazioni che potrebbero estendere le potenzialità repressive della fattispecie. In particolare, eliminando la “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” quale elemento fondante e distintivo del reato, si amplia il recinto dei potenziali autori. In secondo luogo viene introdotta una relazione “alternativa” tra operazioni simulate, utilizzo di documenti falsi o altri mezzi fraudolenti che potrebbero ostacolare le azioni di accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria. Di fatto, questi comportamenti vengono messi sullo stesso piano, con la conseguenza che ciascuno di essi può concorrere a formare la condotta delittuosa. Qualche problema emerge con la definizione delle operazioni simulate in senso relativo, che nello schema vengono descritte come operazioni poste in essere con la volontà di non realizzarle in parte e non riconducibili a quelle integranti forme di abuso del diritto. La nozione appare faticosa e in realtà tradisce una certa difficoltà da parte del legislatore a tenere distinta la simulazione dalla materia di abuso del diritto ed elusione fiscale. Col rischio di creare ulteriori confusioni.
Nel decreto sulla certezza del diritto, infatti, elusione fiscale e abuso di diritto vengono unificate sotto un’unica disciplina, di rilevanza meramente amministrativa. In particolare, si stabilisce che l’abuso di diritto si concretizza in presenza di operazioni prive di sostanza economica, purché nel rispetto formale delle leggi, effettuate per trarre vantaggi fiscali indebiti e in assenza di valide ragioni extrafiscali e non marginali, che rispondono cioè a esigenze di miglioramento gestionale o strutturale dell’impresa. Facile quindi constatare che per abuso il legislatore intenda un comportamento pienamente voluto, anche negli effetti. è per questo che non si comprende lo scrupolo distintivo interpretativo con la simulazione fraudolenta. Piuttosto, l’unificazione dei due concetti comporta anche un altro problema: crea la base stabile per giustificare il confine tra l’elusione e l’evasione, che non avrebbe ragione d’essere, perché sempre di evasione fiscale si tratta, ove il comportamento serve a sottrarsi all’adempimento di un debito tributario già insorto. Confini invisibili, ora eretti stabilmente. Ma evidentemente obiettivo del riformatore è punire penalmente in alcuni casi e monetizzare in altri.
Novità anche sul fronte dell’ occultamento o distruzione di documenti contabili, ma non tanto per l’inasprimento sanzionatorio, quanto piuttosto per le rafforzate possibilità investigative per il contrasto giudiziario dei fenomeni evasivi. In primis, infatti, perché viene superata la soglia minima edittale per l’ammissibilità delle intercettazioni.
Per quanto riguarda l’omesso pagamento di Iva e ritenute, si registra un preoccupante indebolimento dell’area di rilevanza penale per effetto dell’innalzamento delle soglie di punibilità. Le norme contenute nel decreto presentato peraltro una serie di distonie difficilmente spiegabili: il limite oltre il quale l’omesso versamento delle ritenute delle imposte sui redditi assume rilievo penale sale a 150 mila euro, mentre quello relativo ala sanzionabilità penale dell’omesso versamento di Iva viene quintuplicato rispetto ala formulazione attuale, passando a 250mila euro. Con la riforma si introduce poi un nuovo reato dichiarativo (da uno a tre anni) per il sostituto d’imposta che non presenta la relativa dichiarazione quando l’ammontare delle ritenute non versate supera 50mila euro.
Sul versante della indebita compensazione, la riforma opera una distinzione netta, al livello di rilevanza penale, fra crediti “non spettanti “ e crediti “inesistenti”: da un minimo di sei mesi ad un massimo di 2 anni nel primo caso; da un minimo di 18 mesi a un massimo di 6 anni nel secondo. Una differenza notevole e affatto trascurabile, perché per l’utilizzo di crediti inesistenti sarà possibile (in caso di raggiunta soglia edittale) ricorrere a intercettazioni telefoniche e custodia cautelare in carcere.
Uno degli aspetti più innovativi e al tempo stesso problematici del decreto è quello relativo al pagamento dei debiti tributari. Nello schema si prevede infatti che l’estinzione dei debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, per alcuni reati ed in presenza di precise condizioni procedurali e temporali, potrà costituire causa di non punibilità. Per tutti i delitti tributari previsi nel d.lgs. n. 74/2000, ove avvenuta prima dell’inizio del dibattimento, il pagamento tributario potrà far guadagnare una diminuzione sino alla metà della pena e renderà inoperanti le pene accessorie. Questa previsione lascia però inalterate alcune questioni sistematiche di fondo. Ad esempio, la possibilità di evitare la pena estinguendo il debito pone l’evasore in una condizione di privilegio rispetto ad altri autori di altri reati, anche quelli puniti con pene minori. A ciò si aggiunge un problema interpretativo di indiscusso rilievo che andrebbe chiarito, perché la norma non specifica se l’attenuante può intervenire anche se il pagamento è effettuato da terzi o da parte di un altro concorrente del reato. La relazione offre un puntuale ricostruzione delle possibili soluzioni.
Non ultima, trova spazio nella riforma anche la nuova aggravante per gli intermediari fiscali che partecipano a reati tributari. Stabilisce il decreto che la pena è aumentata della metà “se il reato è commesso da correo nell’esercizio di attività di intermediazione fiscale, attraverso l’elaborazione di modelli seriali di evasione fiscale”. Una novità, quest’ultima, importante e di grande significato, non solo simbolico. (Vai al documento completo).
*L’autore è sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Pistoia