I famigerati e complicati studi di settore saranno sostituiti da più garbati e generici “indicatori di compliance”. Il nuovo corso varato dall’Agenzia delle Entrate e dal ministero dell’Economia all’insegna dello slogan “meno cartelle esattoriali più lettere di cortesia” è arrivato a segare il principale pilastro del cervellotico sistema di controlli anti-evasione basato sulle dichiarazioni dei redditi, messo in piedi dalle passate amministrazioni. L’esordio degli studi di settore è datato agosto 1993 con il governo Ciampi e da allora non hanno avuto vita facile. Sono strumenti costruiti secondo un elaborato procedimento statistico, approvato da una commissione di esperti formata dall’Agenzia delle Entrate, dal ministero dell’Economia e dalle organizzazioni di categoria e servono a stimare i ricavi di ogni singolo contribuente. Se il reddito dichiarato è “congruo e coerente” con quello calcolato dal fisco si può stare tranquilli. La mappatura costantemente aggiornata dall’anagrafe tributaria si articola in 204 profili di attività, suddivisi in centinaia di sottogruppi. Un rompicapo per amministrazione e commercialisti non privo di difetti.
“E’ un meccanismo complicato e perverso che parte dai costi per rideterminare i ricavi – spiega Laura Del Santo dell’Ordine dei commercialisti – spesso la stima fatta dal fisco è sovradimensionata ma per evitare gli accertamenti molti preferiscono pagare la differenza”. Un sistema che penalizza i contribuenti onesti e che premia chi evade. Basta infatti dichiarare quanto l’erario richiede e la probabilità di un accertamento scende vicino allo zero. Inoltre il via libera richiesto alle rappresentanze di categoria ha trasformato l’elaborazione degli studi di settore in uno spazio di contrattazione politica. La poca efficacia degli studi di settore è stata denunciata anche dalla Corte dei conti nel suo ultimo rapporto sulla contabilità dello Stato. Sembra quindi un addio senza rimpianti, se non fosse ancora oscuro con che cosa verranno sostituiti. L’Agenzia delle Entrate aveva già abbondanemente anticipato il “cambio di verso”. Nel 2015 sono stati poco più di 8mila gli accertamenti eseguiti in base agli studi di settore, a fronte degli oltre 12mila del 2014. Un vero colabrodo che verrà sostituto da una sorta di concorso a premi per aziende e professionisti. Chi si è comportato e si presenta bene negli ultimi 8 anni, verrà trattato dall’erario con i guanti bianchi. Pochi accertamenti e rimborsi rapidi. Allentata la stretta sugli autonomi, alla macchina super computerizzata del fisco non resterà che puntare sempre più sui controlli automatici delle dichiarazioni di dipendenti e pensionati. L’onere della prova è a carico del contribuente e la maggioranza paga senza fare storie. Del resto 141 dei 176 miliardi di Irpef incassati l’anno scorso dallo Stato sono arrivati dalle ritenute effettuate sugli stipendi dei dipendenti e dei pensionati.
“Evidentemente fa comodo tenere in piedi l’asimmetria tra dipendenti, pensionati e il lavoratore autonomo che decide come e quando dichiarare quello che guadagna salvo controlli”: va giù duro il segretario confederale della Uil, Domenico Proietti. “Anche per autonomi e imprese pensiamo che ci debbano essere adeguati automatismi – rincara il sindacalista – non si capisce perché una giocata al Lotto in una qualsiasi ricevitoria d’Italia viene contabilizzata istantaneamente e fatturazioni e pagamenti no”. “Manca la volontà politica” conclude Proietti: “Serve una grande operazione trasparenza, si devono incrociare tutte le banche dati dove si registrano transazioni economiche e si deve spingere per un coordinamento europeo nella lotta all’evasione, operazioni come portare il limite del contante da mille a 3mila euro certo non aiutano”.
Addio studi di settore, arrivano gli indicatori di compliance (Il Fatto Quotidiano)
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