Nel contesto attuale, caratterizzato da disuguaglianze economiche sempre più marcate e da una crescente difficoltà nel finanziare in modo strutturato lo sviluppo sostenibile dei Paesi a basso reddito, la quarta Conferenza delle Nazioni Unite sul finanziamento allo sviluppo, svoltasi a Siviglia tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 2025, ha rappresentato un momento cruciale di riflessione e proposta. All’evento hanno preso parte 79 Capi di Stato e 190 delegazioni nazionali, segno di un interesse politico ampio, almeno nelle intenzioni, a ridefinire le priorità globali in materia economica e fiscale.
L’obiettivo condiviso, sancito da risoluzioni delle Nazioni Unite fin dagli anni ’70, è quello di destinare almeno lo 0,7% del PIL nazionale all’aiuto pubblico allo sviluppo entro il 2030. Tuttavia, a oggi, nessuna delle grandi potenze industriali ha effettivamente raggiunto tale soglia, mentre nello stesso arco temporale si assiste a un incremento significativo delle spese militari: i Paesi membri della NATO, ad esempio, si sono impegnati a destinare il 5% del proprio PIL alla difesa. Questo squilibrio tra risorse allocate per la sicurezza militare e quelle destinate alla cooperazione internazionale solleva interrogativi morali, politici e sistemici. È in questo contesto che durante la seconda giornata della conferenza è emersa una proposta di rilievo: introdurre una tassa patrimoniale globale sui miliardari, destinata specificamente a finanziare lo sviluppo dei Paesi del Sud globale.
L’idea, sostenuta da Spagna, Brasile e Sudafrica, prevede l’introduzione di un’imposta annua pari al 2% sul patrimonio netto dei circa 3.000 miliardari presenti nel mondo. Le stime indicano che una misura del genere potrebbe generare entrate comprese tra i 200 e i 250 miliardi di dollari all’anno, da destinare interamente al rafforzamento dei programmi di cooperazione, attualmente finanziati in modo discontinuo e strutturalmente insufficiente.
La proposta mira a essere sottoposta al G20 attraverso la creazione di un gruppo di lavoro permanente. Tuttavia, l’esperienza recente invita alla cautela. Un precedente significativo è rappresentato dall’accordo sulla minimum tax del 15% per le multinazionali, promosso a livello OCSE e G7, che dopo anni di negoziati è stato infine approvato, ma in una forma depotenziata da una clausola imposta dall’amministrazione Trump che esclude le grandi aziende statunitensi. Alla luce di questo, è lecito dubitare che la nuova proposta possa ottenere un consenso politico globale senza modifiche sostanziali o dilazioni nel tempo. Ciononostante, la sua rilevanza simbolica e sistemica non può essere sottovalutata. Essa contribuisce a modificare il contesto entro cui si sviluppa il dibattito fiscale internazionale. Le riforme fiscali, infatti, sono spesso percepite come punitive nei confronti delle classi medie e popolari, mentre è ormai evidente – e ampiamente documentato da studi economici e organismi come l’OCSE, il FMI e la Banca Mondiale – che le attuali strutture tributarie premiano in maniera sproporzionata i detentori di grandi patrimoni, che spesso pagano imposte effettive molto inferiori in percentuale rispetto al proprio reddito o capitale.
Cambiare questa narrazione significa mostrare che una tassazione progressiva dei super-ricchi non solo è giusta, ma anche necessaria per riequilibrare le finanze pubbliche e garantire servizi essenziali alla popolazione. In questo quadro si inserisce anche il ruolo fondamentale delle organizzazioni non governative, come Oxfam, che da anni denunciano l’aumento vertiginoso della concentrazione di ricchezza e promuovono una fiscalità redistributiva come strumento per ridurre le disuguaglianze. I dati pubblicati nel loro ultimo rapporto evidenziano, da un lato la straordinaria concentrazione di ricchezza nelle mani di una piccola élite globale, dall’altro la sproporzione tra il carico fiscale sostenuto da questi individui rispetto a quello gravante sulla popolazione generale. Questi dati indicano non solo una sproporzione macroscopica, ma anche un fallimento dei meccanismi attuali di giustizia fiscale.
A Siviglia, migliaia di cittadini sono scese in piazza per sostenere la proposta di una tassa globale sui patrimoni ultramilionari, a testimonianza del fatto che non si tratta di un’idea elitaria o accademica, ma di una rivendicazione sociale diffusa e sentita. La questione centrale diventa allora quella della volontà politica. Perché una tale misura diventi realtà servono tre condizioni: la creazione di un meccanismo multilaterale vincolante, in grado di evitare fenomeni di elusione e concorrenza fiscale tra Stati; la trasparenza patrimoniale attraverso registri pubblici e lo scambio automatico di informazioni tra autorità fiscali; una comunicazione efficace che sappia smascherare i falsi miti sulla tassazione dei ricchi, mostrando come tale misura, lungi dall’essere dannosa per l’economia, possa invece incentivare una crescita più inclusiva e sostenibile.
In conclusione, l’imposizione di una tassa globale sui miliardari rappresenta oggi una delle poche opzioni realistiche per finanziare in modo stabile lo sviluppo internazionale, promuovere l’equità fiscale e restituire legittimità democratica ai sistemi economici contemporanei. Tassare i super-ricchi, più che un’utopia, è una necessità logica e morale. Le resistenze sono forti, ma i dati, la ragione e sempre più anche l’opinione pubblica sembrano indicare che è questa la direzione verso cui muoversi.