Spetta all’Amministrazione finanziaria provare che il percettore delle royalties pagate da una società italiana non è il beneficiario effettivo. A stabilire il principio è la Corte di Giustizia Tributaria dell’Emilia Romagna con la sentenza n. 929/14/2023, del 2 ottobre 2023 accogliendo il ricorso della società che si era opposta all’avviso di accertamento con cui era stata determinata la maggiore ritenuta a titolo di imposta sulle royalties corrisposte ad altra società del gruppo con sede in Svizzera.
L’Amministrazione finanziaria riteneva che non potesse trovare applicazione l’aliquota ridotta del 5%, prevista dalla Convenzione Italia/Svizzera, bensì l’aliquota del 30%, prevista dall’art. 25, 4° co., Dpr. n. 600/1973, in quanto il beneficiario effettivo delle royalties non era la società svizzera, bensì la controllante statunitense.
La ricorrente, per quanto di interesse, affermava che l’Agenzia aveva erroneamente applicato la Convenzione, non assolvendo peraltro al suo onere della prova.
La Commissione Tributaria Provinciale di Modena accoglieva il ricorso, ritenendo che il solo fatto che la società svizzera fosse partecipata al 100% da quella statunitense non fosse sufficiente a considerarla una mera interposta, tanto più che dal bilancio non si riscontrava la retrocessione delle royalties alla controllante.
L’Agenzia delle Entrate proponeva quindi appello, ribadendo che il beneficiario effettivo delle royalties non era la società svizzera, mero collettore dei diritti che venivano corrisposti su un conto londinese, e che l’onere della prova gravava comunque sulla contribuente, la quale voleva avvalersi di una norma agevolativa.
La società, nel costituirsi in giudizio, rilevava ancora che era dimostrato che le royalties erano state corrisposte ad un soggetto residente in Svizzera, che pagava le imposte in quel Paese, e che era comunque onere dell’Amministrazione provare che il destinatario non fosse il beneficiario effettivo, anche considerato che le certificazioni svizzere avevano valenza probatoria.
Secondo i giudici di secondo grado l’appello non era fondato. Evidenzia la CGT che l’art. 12 delle Convenzione tra Repubblica Italiana e Confederazione Svizzera prevede che l’imposta non può eccedere il 5% dell’ammontare lordo dei canoni se “la persona che percepisce i canoni ne è l’effettivo beneficiario”.
La società avente sede in Svizzera era una società controllata dalla capogruppo statunitense e gestiva in Europa il brand concludendo i contratti di franchising e tutelando il marchio. Essa, secondo i giudici di merito, era perciò, fino a prova contraria, una società operativa e non un mero collettore di royalties.
Nella specie, peraltro, il contratto di franchising non era stato concluso dalla società americana ma da quella svizzera e dunque le royalties rappresentavano, almeno in parte, il corrispettivo dei servizi resi, consistenti nella conclusione e gestione dei rapporti di franchising, non essendoci, come detto, prova di retrocessioni, o meglio di trasferimenti della royalties ricevute alla società americana.
La CGT condivideva inoltre l’assunto difensivo della contribuente, secondo cui la prova che il percipiente i canoni non fosse l’effettivo beneficiario gravava sull’Amministrazione finanziaria, non trattandosi nella specie dell’applicazione di un’agevolazione fiscale ma della sussistenza dei presupposti di uno specifico regime tributario (concernente i rapporti commerciali tra una società italiana e una svizzera), ed essendo per la società italiana affiliata irrilevante trattenere, a titolo d’imposta, il 5% piuttosto che il 30% di quanto doveva corrispondere all’affiliante.
In sostanza, era onere dell’Amministrazione fornire elementi idonei a sostegno della tesi che il beneficiario delle royalties fosse la società statunitense (con sede nel Delaware) e che la società svizzera fosse un mero intermediario.
Per completezza di ragionamento la CGT rilevava infine come l’avviso di accertamento sarebbe stato comunque illegittimo anche nel caso in cui l’effettiva beneficiaria delle royalties fosse stata la società controllante statunitense, dato che, anche in quel caso, non avrebbe potuto trovare applicazione l’aliquota del 30%, prevista dal 4° co. dell’art. 25, Dpr. n. 600/73, ma quella prevista dalla Convenzione Italia/Stati Uniti di America, che, all’art. 12, 2° co., prevede che, se ne è prevista la tassazione dalla legislazione italiana, ai canoni, tra cui si ricomprendono anche le royalties, si applichi l’imposta sostitutiva con l’aliquota del 39;8% sull’ammontare lordo dovuto.
A prescindere dallo specifico caso processuale, i concetti su cui preme appuntare l’attenzione sono in particolare due: quello di beneficiario effettivo e quello di onere della prova, quest’ultimo anche alla luce della recente riforma del processo tributario, ex legge 130/2022, che ha aggiunto il comma 5-bis all’articolo 7 del Dlgs. 546/1992, in base al quale spetta all’ufficio provare quanto contestato con l’atto impugnato.
Partendo proprio da quest’ultimo punto, a parte rilevare che, proprio sul tema della prova del beneficiario effettivo, il principio espresso dalla CGT non è in linea con la giurisprudenza della Corte di Cassazione (tra le più recenti vedi Cass., n. 6067/2023 e Cass., n. 14905/2023), secondo cui spetta al contribuente, anche per il principio di vicinanza della prova, dimostrare, sul piano sostanziale, lo status di beneficiario effettivo, si evidenzia comunque che la nuova formulazione legislativa in tema di ripartizione dell’onere della prova, ad opera della L. 130/22, nel prevedere che “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”, non stabilisce in realtà un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, essendo solo coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova,
che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale.
Come infatti già chiarito dalla stessa Cassazione con l’Ordinanza n. 31878 del 27/10/2022, il comma 5 bis dell’art.7 Dlgs. n.546/1992 ha semplicemente ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’Amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali, come nel caso di specie, non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio.
La modifica normativa richiamata non modifica dunque l’impianto generale di distribuzione dell’onere della prova tra le parti in giudizio, come dettato dall’art. 2697 cod. civ., laddove, in applicazione dello stesso principio, l’Amministrazione Finanziaria, che vanti un credito nei confronti del contribuente, è naturalmente tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa. Così come, sul fronte opposto, spetta al contribuente provare il proprio diritto al rimborso.
Tale ripartizione è del resto conseguenza del ruolo di attore formale/sostanziale, che, rispettivamente, rivestono Amministrazione finanziaria e contribuente in caso di processo avente ad oggetto un avviso di accertamento o un diniego di rimborso.
Bisogna infatti ricordare che nel processo tributario, avendo l’avviso una funzione di provocatio ad opponendum, l’Amministrazione è in realtà attore sostanziale e il vero thema decidendum è individuato nell’avviso di accertamento, ancor prima che nel ricorso. E’ quindi normale che debba essere la stessa Amministrazione a fornire la prova della propria pretesa.
Come detto, anche in campo tributario, vigono dunque i principi generali della prova, che comportano che la responsabilità e l’onere della prova grava su chi afferma o pretende qualcosa (art. 2697 c.c.).
E’ bene del resto evidenziare che, in materia tributaria, il ruolo delle cosiddette prove “atipiche” è (e resta) molto importante. In un tale contesto, la prova per presunzioni, tipica del processo tributario, è dunque una prova critica, basata su di un procedimento d’ordine logico, che, partendo da uno o più fatti noti o certi, permette di desumere, in via di ragionevole consequenzialità, l’esistenza del fatto ignoto. E non a caso anche la recente modifica normativa di cui al citato comma 5 bis ritiene sufficiente la presenza di “elementi di prova”.
Venendo poi al secondo punto e combinando tali riflessioni con il concetto di beneficiario effettivo, bisogna del resto anche ricordare che la giurisprudenza di legittimità (vedi per tutte Cass., 08/06/2023, n. 16173) ha rilevato che la richiesta, in quel caso, di applicazione dell’aliquota del 15 per cento prevista dalla Convenzione Italia-Lussemburgo restava esclusa dalla mancanza di prova (da parte del contribuente) della qualità di beneficiario effettivo dei dividendi, condizione smentita dall’essere l’istante società controllata indirettamente da altra società estera (extraUE).
Evidenziava peraltro in quell’occasione la Suprema Corte che l’indagine sul requisito del “beneficiario effettivo”; è immanente all’ordinamento internazionale, essendo stato tale concetto introdotto attraverso la modifica, risalente al 1977, degli artt. 10, 11 e 12 del Modello OCSE, rispettivamente in materia di dividendi interessi e royalties, con lo scopo di evitare il c.d. treaty shopping (cfr., Cass. 10/07/2020, n. 14756).
Rileva quindi la Cassazione che, sebbene il Modello OCSE e le Convenzioni internazionali non contengano una definizione di beneficiario effettivo, quest’ultima è stata comunque delineata dalla giurisprudenza, laddove la Suprema Corte (cfr., Cass. 28/02/2023, n. 6005) ha chiarito che l’indagine volta a verificare la qualità di beneficiario effettivo si articola in tre test, autonomi e disgiunti:
– il substantive business activity test;
– il dominion test;
– il business purpose test.
Tra questi, in particolare, con il dominion test, che punta al cuore del significato economico dell’operazione (substantial economic effect), si valuta la capacità della società di disporre liberamente degli interessi percepiti, laddove il “dominio”; degli interessi ricevuti si ha quando la percipiente ne può disporre liberamente e non è tenuta a rimettere il flusso reddituale a un terzo, che può essere anche una società appartenente allo stesso gruppo multinazionale (vedi anche Cass. 09/12/2018 nn. 32840 e 32842, specificatamente in materia di royalties).
Sempre sul tema, si evidenzia infine che il 26 febbraio 2019 sono state pubblicate le sentenze della Corte di Giustizia comunitaria sui c.d. “casi danesi”, concernenti fattispecie di abuso del diritto in tema di applicazione delle disposizioni previste dalla Direttiva “Madre-Figlia” (cause riunite C-116/16 e C-117/16) e dalla Direttiva “Interessi-Royalties” (cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16), che segnano un ulteriore ampliamento del concetto di abuso del diritto sotto il profilo del concetto di beneficiario effettivo.
A conferma dell’attenzione da avere sempre quando si tratta tali tipi di fattispecie, si ricorda del resto che, in occasione della revisione dei commentari, avvenuta nel 2003, questi ultimi sono stati integrati da osservazioni relative alle c.d. «società relais» (società interposte), vale a dire società che, sebbene formalmente titolari di redditi, dispongono nella pratica soltanto di poteri del tutto limitati, risultando essere semplici fiduciarie, o semplici amministratori agenti per conto delle parti interessate, di modo che esse non devono e non possono essere considerate quali beneficiari effettivi di tali redditi.
In conclusione, il requisito del beneficiario effettivo deve essere sempre verificato in chiave sostanziale e non solo formale, essendo tale quel soggetto che beneficia economicamente degli interessi percepiti e che ha il potere di disporne liberamente la destinazione.