Il riequilibrio di aliquote attualmente sbilanciate avvicinerebbe il nostro sistema fiscale a quello degli altri Paesi europei. Si tratta di spostare il carico dal reddito ‘prodotto’ al reddito ‘entrata’.
di Antonio Serafini
Le parole chiave del nuovo Governo sono, nell’ordine: lavoro, burocrazia e fisco. Tra i temi di cui più si parla, c’è n’è uno, in particolare, capace di coinvolgere contemporaneamente lavoro e fisco. Si tratterebbe di un intervento doppio: portare l’aliquota sulle rendite finanziarie (redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria) dall’attuale 20% al 30% e destinare le risorse così ottenute al mondo del lavoro, dove la tassazione nel nostro Paese è tra le più elevate. Ciò potrebbe contribuire alla riduzione del cuneo fiscale, che svilisce e deprime la competitività delle imprese italiane. Presi singolarmente, i due propositi non sono del tutto nuovi. La tassazione delle rendite finanziarie al 20%, peraltro con ampie aree di agevolazione al 12,5% per titoli di stato, buoni postali, bond di Paesi non black list e organismi internazionali, è considerata “di favore” anche dagli stessi operatori del settore ed è, soprattutto, di molto inferiore agli standard europei, che si attestano infatti intorno al 30%, (pur con le dovute cautele nel confrontare legislazioni ancora molto eterogenee, come quelle europee). Ed infatti le rendite finanziarie sono state nel mirino dei due precedenti governi, salvo poi partorire pochi e striminziti topolini, il più gracile dei quali è stato proprio la cd Tobin Tax, il cui gettito trascurabile, rispetto alle previsioni ufficiali, dovrebbe far riflettere.
Il proposito di ridurre il cuneo fiscale, poi, riscuote da tempo la concorde adesione di tutti: dagli organismi internazionali al governo, dai sindacati alla Confindustria. Anche in questo caso, però, fino ad ora c’è stato tanto rumore per (quasi) nulla. In ogni caso, nelle prime dichiarazioni del nuovo ministro dell’economia e delle finanze, ritroviamo ancora il proposito di ridurre il cuneo fiscale, anche se prevalentemente con fondi da reperire sul fronte della spesa. L’ipotesi di cui parliamo consiste in un doppio intervento i cui effetti si realizzano nell’ambito del mondo della tassazione: meno tasse in un comparto (lavoro) e più tasse in un altro (finanza). Se non c’è dubbio che l’alleggerimento del carico fiscale sul mondo del Lavoro sia auspicabile, bisogna chiedersi se si possa accettare un inasprimento fiscale sulle attività finanziarie; e soprattutto se tale inasprimento abbia un fondamento razionale. Il rischio è evidente: un ulteriore allontanamento degli operatori finanziari, già frastornati da una incessante produzione di norme peggiorative. La risposta, comunque, è positiva e non solo perché si tratterebbe di riequilibrare aliquote attualmente sbilanciate, avvicinando il nostro sistema fiscale a quello degli altri Paesi europei. Vi è un motivo più politico, che si può valutare guardando ai fondamenti economici delle due categorie di redditi in argomento, ed in particolare alla distinzione tra reddito prodotto e reddito entrata, ampiamente nota e condivisa in dottrina.
Il cuneo fiscale si riduce intervenendo sui redditi di lavoro ed il carico complessivo dell’impresa. In questo senso rileva certamente la categoria economica del “reddito prodotto”. Cioè della ricchezza nuova derivante da una fonte produttiva. Qual è invece la natura reddituale delle c.d. rendite finanziarie, o meglio dei redditi di natura finanziaria? Un incremento della loro tassazione può avere effetti dannosi sulla produttività reale del paese? La risposta non è immediata e necessita di qualche puntualizzazione. Nella categoria dei redditi di natura finanziaria troviamo tipologie di reddito trattate astrattamente e apparentemente in modo distinto dal Legislatore: da un lato ci sono i “redditi diversi di natura finanziaria” (art. 67 Tuir), che derivano da strumenti di investimento che prevedano anche la possibilità di “perdite”, e dall’altro i redditi di capitale (44 Tuir), che sono costituiti da ogni provento derivante da rapporti aventi per oggetto l’impiego di capitale, con esclusione di quelli che possono generare sia guadagni che perdite, in relazione ad eventi incerti.
I primi, anche detti “guadagni di capitale” o “capital gains”, attengono senz’altro alla categoria del “reddito entrata”, sono cioè redditi “non produttivi”, sono un mero incremento di patrimonio e derivano dall’eventuale differenza positiva tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto degli strumenti di investimento; redditi che, ricordiamolo, possono derivare anche da una semplice scommessa sull’andamento negativo dell’economia o sulla perdita di altri titoli. Ed appaiono perciò meno meritevoli di attenzione da parte dell’ordinamento, soprattutto in un momento contingente come quello attuale, in cui tutti gli sforzi devono concentrarsi sulle misure per la crescita e quindi per la produttività. Per i secondi, i redditi di capitale, a rigore e in prima battuta, si dovrebbe parlare di “reddito prodotto” (derivante dalla concessione in godimento di un capitale a soggetti terzi). Ma la dottrina ha ormai da tempo sottolineato la sostanziale confluenza dei redditi di capitale nella più generale categoria dei redditi di natura finanziaria; nella quale si dissolve il carattere di “reddito prodotto”, dal momento che la loro gestione operativa è ormai confinata dal legislatore nelle imposte sostitutive, che oggi rappresentano il vero regime ordinario dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria. Ciò è vero soprattutto per il “risparmio gestito”, di cui all’art. 7 del D. Lgs. 461/97: in tale regime, previsto espressamente per i redditi diversi, viene realizzato un trattamento unitario di tutti i redditi di natura finanziaria.
Pertanto si deve riconoscere che i redditi di capitale si sono in qualche modo avvicinati, di fatto, alla categoria del “reddito entrata”, perdendo quindi di rilevanza sotto il profilo della produttività. Peraltro la qualificazione dei redditi di natura finanziaria come “meno rilevanti sotto il profilo della produttività”, si può desumere anche dalla disciplina delle controlled foreign companies (Cfc), dove è stato recepito, a livello sia normativo che di prassi, il concetto di Passive Income, per indicare redditi non derivanti direttamente dall’esercizio di un’effettiva attività economica; in tal senso contrapposti ai redditi legati alla produzione economica e dunque idonei a “radicare” un’impresa in un determinato territorio. Infatti, tra i passive income si menzionano espressamente i proventi derivanti da “gestione, detenzione o investimenti in titoli, partecipazioni crediti o altre attività finanziarie”, come, ad esempio, dividendi, interessi e royalties (comma 5-bis art. 167 Tuir, modificato dal Dl 78/2010; la definizione risale alla circolare nr. 65/2000 di Assonime, che ha parlato di produttività insita in cespiti di facile mobilità, quale, tipicamente il reddito di natura finanziaria).
In definitiva, la leva fiscale, con l’incremento della tassazione sui redditi di natura finanziaria ed il contestuale alleggerimento della tassazione sui redditi di lavoro e dell’impresa, potrebbe agevolare la ripresa delle attività più produttive, oggi in grande sofferenza e per di più gravate da un peso fiscale tra i maggiori in Europa. In altri termini, si tratterebbe di spostare il carico fiscale dal mondo del lavoro a quello della finanza, dal “reddito prodotto” al “reddito entrata”. La ripresa dell’economia reale gioverebbe anche alla finanza, che, tornando alla sua funzione fisiologica di finanziamento di imprese sane e competitive, potrebbe ottenere più guadagni, anziché guadagni meno tassati.