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venerdì 24 Ottobre 2025
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Manovra, per lo sviluppo delle imprese arriva Ace, la versione Passera della Dit

Per le imprese, arriva l’Ace (Allowance for corporate equity), una rivisitazione della Dit (Dual income tax) introdotta da Visco ed eliminata dal governo Berlusconi. La leva fiscale viene utilizzata per favorire, in modo diretto o indiretto, la capitalizzazione e il rafforzamento della struttura patrimoniale delle società, con particolare riferimento alle esigenze del settore finanziario.

di Yoda

La manovra varata dal governo e licenziata dalla Camera accanto a forti inasprimenti fiscali, soprattutto sul versante delle persone fisiche, introduce anche una serie di misure per lo sviluppo economico volte ad accrescere, anche attraverso la leva fiscale, la capacità delle imprese di competere e arricchire la catena di produzione del ‘valore’. Si tratta in particolare della riduzione del ‘cuneo’ affidata agli alleggerimenti dell’Irap connessi all’intensità della componente lavoro (in particolare di donne e giovani di età inferiore ai 35 anni ) e della deducibilità, dalle imposte sul reddito, della componente lavoro della base imponibile Irap. Nel complesso, prevalgono gli interventi a carattere ‘difensivo’, finalizzati a rafforzare la struttura patrimoniale delle imprese – ora molto indebolita – per evitare che esse diventino facili ‘prede’ di investitori o speculatori esteri. Un rischio, questo, che si pone in termini particolarmente preoccupanti per le imprese finanziarie che sono chiamate a svolgere un ruolo fondamentale per il sostegno del sistema produttivo, la tutela del risparmio e delle esigenze di finanziamento delle famiglie, ma che, in conseguenza della crisi, capitalizzano addirittura meno (molto meno) del loro valore contabile. L’impronta principale degli interventi che, sul piano fiscale, la manovra riserva alle imprese deriva dalla necessità di affrontare l’emergenza “sottocapitalizzazione” delle principali società quotate finanziarie e industriali. Convergono in questa direzione non solo il primo articolo del provvedimento, la c.d. Ace (allowance for corporate equity) che premia aumenti di capitale e politiche di trattenimento degli utili, ma anche le disposizioni per la trasformazione delle imposte differite attive in crediti d’imposta e la proroga dell’opzione per il riallineamento delle partecipazioni.

 

Gli articoli 1, 9 e 20, nonostante la loro collocazione in Titoli diversi del decreto legge, condividono infatti il medesimo scopo: per un verso, alleggeriscono – con l’Ace – il carico fiscale delle operazioni di aumento del capitale (e simili), e, per un altro, destinano a tale scopo risorse erariali.

Più nello specifico, l’art. 1 premia le nuove iniezioni di capitale da parte dei soci o la rinuncia alla distribuzione dei dividendi accordando una deduzione dal reddito pari alla remunerazione idealmente riferibile (“rendimento nozionale”) all’incremento del capitale proprio rispetto a quello esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010. Come dicevamo, l’Ace è un istituto premiale che privilegia gli apporti di capitale di rischio (equity) rispetto ai finanziamenti a debito; ed altro non è che la rivisitazione della Dit (dual income tax), che era stata introdotta da Visco nel 1997 e abrogata da Tremonti quattro anni dopo.

L’eliminazione della Dit nel 2001 aprì il decennio del “leveraged”, della esaltazione delle virtù taumaturgiche dell’indebitamento, i cui risvolti più critici sono ben testimoniati dalla vicenda di Seat Pagine Gialle, una società altamente profittevole condotta ad un passo dal fallimento dal leveraged aggressivo di fondi di private equity ‘mordi e fuggi’: che talora aggrediscono le “prede” non per un progetto industriale, ma per ‘spolparle’ dall’interno e passare velocemente ad altri investimenti speculativi.

La nuova Ace apre nel 2011 quello che gli economisti annunciano come il decennio del necessario rafforzamento patrimoniale delle banche e delle imprese. E, in questo contesto si collocano – con i loro complessi tecnicismi – anche gli articoli 9 e 20 della manovra.

L’art. 9 completa la trasformazione in veri e propri crediti d’imposta – ossia in attività ‘liquide’ – delle imposte differite attive (Dta), già iniziata con il decreto “mille proroghe” del 2010. La norma risponde alla esigenza di eliminare la situazione di svantaggio in cui versano le nostre imprese – rispetto ai competitors europei e extraeuropei – in conseguenza delle norme che differiscono e ripartiscono nel tempo la deducibilità fiscale di alcuni componenti negativi, che invece hanno sul conto economico e sulla situazione patrimoniale delle imprese un effetto rilevante ed immediato . Si pensi alle svalutazioni dei crediti verso la clientela che hanno inciso in modo pesante sui risultati d’esercizio delle banche, ma che – per l’ammontare superiore allo 0, 3 per cento dei crediti iscritti in bilancio – sono deducibili in quote costanti nell’arco di 18 anni. Ed è così anche per le svalutazioni o gli ammortamenti dell’avviamento o di altri beni immateriali a vita illimitata che incidono in bilancio per importi molto più consistenti di quelli fiscali, ripartiti in quote fino a 18 anni.

Per effetto della indeducibilità solo temporanea di questi componenti negativi le imprese pagano, nell’immediato, imposte che poi potrebbero essere “restituite” negli esercizi successivi, se saranno prodotti redditi imponibili sufficienti ad assorbirle. I redditi futuri, infatti, saranno gravati da un carico fiscale minore per effetto delle variazioni in diminuzione corrispondenti ai diciottesimi delle svalutazioni crediti o alle residue quote fiscali di ammortamento dell’avviamento e degli altri beni immateriali. E’ per questo motivo che le imprese possono rilevare, come Attività, le maggiori imposte pagate per la momentanea indeducibilità di questi costi, considerandole come probabili anticipazioni di imposte future. Ma si tratta, pur sempre, di stime, perché se l’impresa dovesse poi produrre perdite, civilistiche o fiscali – in luogo degli utili sperati – le imposte non sarebbero dovute e quelle pregresse, anticipatamente sostenute, si rivelerebbero, ex post, come meri “oneri” non più recuperabili. Di conseguenza, l’iscrizione delle Dta nell’Attivo dello stato patrimoniale è condizionata dalla valutazione delle prospettive future; e anche quando l’iscrizione è possibile, il “ristoro” patrimoniale non è del tutto acquisito, perché esse sono considerate come attività ‘illiquide’, non idonee a dare piena copertura – per quanto riguarda ad esempio le imprese del settore finanziario – al patrimonio di vigilanza, così come ridefinito da Basilea 3.

Il massiccio ricorso del nostro ordinamento tributario (per meri motivi di gettito) al differimento della deducibilità di costi, anche di quelli tipici della attività caratteristica (come le svalutazioni crediti per le banche), pone problemi particolarmente delicati per le imprese finanziarie impegnate a centrare gli obiettivi di Basilea 3.

Da qui, il doppio intervento del decreto “mille proroghe”, il Dl n. 225, del 2010 e dell’art. 9 della manovra Monti, che incidendo sulle situazioni in perdita (civilistica o fiscale) in cui non sarebbe stato possibile “recuperare” come asset le imposte anticipate, le trasformano in veri e propri crediti d’imposta e, quindi, in attività ‘liquide’.

Venendo ai tecnicismi, l’art. 2 comma 55 del “milleproroghe” si era occupato (e tuttora si occupa) dei casi di imprese che, con rilevanti imposte anticipate iscritte nell’Attivo, conseguano perdite d’esercizio. In tali circostanze, la norma dispone la conversione della Dta in crediti d’imposta attuali (cedibili o utilizzabili senza limiti in compensazione) per un importo pari ad una quota della perdita tanto maggiore quanto più rilevante è l’incidenza percentuale delle Dta stesse sul patrimonio netto[1]. La norma rende immediatamente liquide queste particolari attività, con l’effetto, indiretto, di anticipare la deduzione di specifici costi a deducibilità differita (quelli relativi alle svalutazioni dei crediti del settore finanziario o alle svalutazioni e ammortamenti di poste iscritte a titolo di avviamento e altri beni immateriali), i quali, ovviamente, non potranno più essere ulteriormente dedotti secondo le ordinarie regole di ripartizione fino a concorrenza della quota di Dta ‘cartolarizzata’.

Restavano altre situazioni ‘critiche’ che non consentivano di qualificare come attività ‘liquide’ le Dta. E’ il caso delle imprese in utile civilistico che, tuttavia, dichiarano – negli esercizi successivi a quelli di iscrizione delle Dta – perdite fiscali originate, in tutto o in parte, proprio dalle variazioni in diminuzione che possono essere apportate in relazione alla quota di costi oggetto di differimento: imprese che non hanno imposte da pagare e da ‘compensare’ con le Dta, ma solo perdite fiscali da computare a riporto negli esercizi successivi. Ed ecco, che l’art. 9 della manovra Monti dispone, ex lege, la conversione in credito d’imposta dell’intero importo della perdita fiscale attribuibile alle predette variazioni in diminuzione[2], la quale non sarà più riportabile. In tal modo, la norma riconosce immediato rilievo fiscale alle imposte , “implicite”, che la perdita avrebbe consentito di risparmiare solo in futuro; ma nel frattempo le Dta avrebbero dovuto essere cancellate dall’Attivo. E ancora, la manovra dispone la trasformazione in crediti di tutte le Dta residue ancora presenti nei bilanci delle imprese in liquidazione volontaria (o situazioni consimili) che non farebbero in tempo a dare rilievo fiscale ai costi differiti e a utilizzare le Dta . E prevede altresì che i crediti in questione siano anche rimborsabili.

Il nuovo look delle imposte differite attive moltiplica, a beneficio delle imprese, i propri effetti positivi se esse utilizzano nel contempo le ampie opportunità (vecchie e nuove) di riallineamento dei valori fiscali ai maggiori valori contabili che emergono – a titolo di avviamento o altri beni immateriali – in conseguenza delle operazioni straordinarie di fusione, scissione o conferimento di azienda in neutralità. Questi maggiori valori non sono ordinariamente riconosciuti ai fini fiscali perché le operazioni, neutrali, non sono assoggettate a tassazione: e ciò comporta l’indeducibilità dei maggiori ammortamenti civilistici effettuati sui maggiori valori dei cespiti iscritti in bilancio. L’ordinamento consente tuttavia alla società ‘beneficiaria’ dell’operazione (la conferitaria, l’incorporante etc.) di riallineare tali valori con il pagamento di una imposta sostitutiva, la cui aliquota (normalmente il 16%) è notevolmente inferiore alla somma delle aliquote ordinarie Ires e Irap.

Riallineare i rilevanti valori emersi in queste operazioni comporta il pagamento anticipato dell’imposta sostitutiva, in cambio, tuttavia, delle minori imposte ordinarie che saranno dovute negli esercizi futuri per effetto dei maggiori ammortamenti (divenuti deducibili) dei cespiti ‘riallineati’. Ne deriva che l’affrancamento produce un immediato effetto benefico sui bilanci delle imprese e soprattutto sulla loro situazione patrimoniale: pagando infatti imposte sostitutive per 16 le imprese potranno, contestualmente, rilevare imposte anticipate per 27,5 + 3,9 (Ires più Irap): imposte anticipate che sono ora divenute attività liquide nel loro complesso, perché se ci saranno utili esse saranno recuperate in modo ‘naturale’, se ci saranno perdite civilistiche e/o fiscali si trasformeranno in crediti d’imposta immediatamente fruibili.

Il riallineamento produce, per volontà del contribuente, altre imposte anticipate che, con le norme in commento, si sono trasformate in ‘opportunità’. Per questo è in corso una gara al riallineamento degli avviamenti, da parte soprattutto delle banche che possono migliorare i ratios patrimoniali di qualche centinaio di milioni, come si evidenzia in un recente articolo di Marigia Mangano su “Il Sole 24Ore” del 30 novembre u.s. “Intesa e Banco sugli avviamenti: ok all’affrancamento fiscale”.

Ecco perché la disposizione dell’art. 20 della manovra, impropriamente collocata tra le norme che dispongono “entrate”, accresce queste medesime opportunità. La norma proroga una misura già inserita nelle manovre estive che – del tutto eccezionalmente – consente alle imprese tenute a redigere il bilancio civilistico consolidato di riallineare i maggiori valori dell’avviamento e degli altri beni immateriali “impliciti” nell’acquisto delle partecipazioni di controllo: valori che emergono nel bilancio consolidato, ma che neppure compaiono nel bilancio individuale della società acquirente, la quale – pur iscrivendo nell’Attivo soltanto la voce “partecipazioni” – potrà dedurre, extra contabilmente, le quote di ammortamento dell’avviamento, dei marchi in essa impliciti. E con ciò, possiamo dire sia nato il nuovo istituto di un ‘riallineamento’ che ‘disallinea’ i valori: creando valori fiscali che non corrispondono a quelli contabili.

E’ sicuramente, per le imprese, un’opportunità. Alcune stime pubblicate su “Il Sole 24 Ore” valutano in circa 8 miliardi le Dta presenti nei bilanci delle maggiori banche che, con queste disposizioni, potrebbero ridurre fino a 60 punti base l’impatto negativo di Basilea 3.

[1] La quota di Dta trasformata in credito è pari alla quota di perdita d’esercizio proporzionalmente corrispondente al rapporto tra Dta e Pn. Essa è infatti determinata come segue = perdita esercizio x (Dta: capitale e riserve).

[2] In altri termini, le Dta sono convertite in crediti in misura pari al minore ammontare tra le variazioni in diminuzione e la perdita fiscale. Se le variazioni in diminuzione, relative ai diciottesimi di svalutazione crediti o alle quote di ammortamenti o svalutazioni di avviamento o altri beni immateriali, sono pari a 5 e la perdita fiscale è 10, si convertono Dta per 5; se le variazioni in diminuzione sono 5 e la perdita fiscale è 3, si convertono Dta per 3.{jcomments on}

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