Smentita l’ipotesi di un’intesa sulla base di 320 milioni di euro: il colosso del web avrebbe eluso 800 milioni di ricavi pubblicitari realizzati in Italia. Ma se venisse riproposta la norma sull’elusione presentata in Cdm il 24 dicembre, verrebbe meno la rilevanza penale del reato.
Pace sì, pace no. Non è ancora conclusa la “guerra” tra Google e la Procura di Milano. Dopo la notizia diffusa questa mattina dal Corriere della Sera circa la decisione del colosso californiano di versare al Fisco italiano 320 milioni per chiudere il contenzioso, è arrivata la smentita. “Non c’è l’accordo, ma continuiamo a cooperare con le autorità” ha detto un portavoce di Google all’Ansa, seguito a ruota dal Procuratore della Repubblica di Milano, Bruti Liberati, il quale ha precisato che “sono in corso indagini fiscali nei confronti del gruppo”, sulla base delle quali “saranno tratte le valutazioni conclusive”. Il contenzioso è riferito al periodo 2008-2013: secondo la Guardia di Finanza e il pm Isidoro Palma, il gigante del web avrebbe trasferito i proventi pubblicitari realizzati in Italia alla sua filiale irlandese ed eluso al Fisco circa 800milioni di euro. Sul caso incombe il decreto attuativo sulla certezza del diritto: se venisse approvato a maggio, l’abuso di diritto posto in atto dalla multinazionale americana non avrebbe più rilevanza penale.
Il sandwich olandese. Così, in gergo, è chiamato il meccanismo messo in piedi da Google per pagare meno tasse. Attraverso fatture e mail, gli inquirenti hanno ricostruito la “rete” di clienti italiani che nel periodo contestato hanno acquistato spazi pubblicitari sul motore di ricerca, scoprendo una filiera elusiva che dall’Italia arriva alle Bermuda. In sostanza, gli incassi pubblicitari realizzati in Italia venivano indirizzati alla controllata Google con sede in Irlanda, poi dirottati sotto forma di royalties in Olanda e infine girati ad un’altra società assoggettata alla tassazione delle Bermuda. Un meccanismo che avrebbe consentito alla multinazionale di Larry Page di sottrarre al Fisco italiano circa 800 milioni di imponibile in cinque anni.
Il contenzioso. Nonostante non siano ancora arrivati a un’intesa, le controparti stanno continuando a lavorare per risolvere la controversia. L’ipotesi al momento più plausibile è che Google versi all’erario una cifra vicina ai 300 milioni di euro, pari a circa il 40% dell’imponibile eluso, comprensivo dei saldi Ires e Irap più sanzioni e interessi. Non è da sottovalutare, tuttavia, l’eventualità che la multinazionale aspetti l’approvazione del decreto attuativo sulla certezza del diritto attesa per maggio, che prevede la non rilevanza penale dell’elusione fiscale.
I guai col fisco. La politica elusiva di Google non è però nuova alle autorità europee e americane. Nel 2013 la Public Accounts Comittee, la commissione britannica di controllo delle finanze pubbliche, accusò il motore di ricerca di praticare una “evasione fiscale intraprendente” avendo pagato tra il 2006 e il 2011 solo 16 milioni di dollari di tasse in Uk, a fronte di un fatturato di 18 miliardi di euro. Oltre all’azienda di Mountain View sono tante le multinazionali che sfruttando le asimmetrie dei diversi ordinamenti, attuano strategie fiscali aggressive finalizzate all’erosione della base imponibile, da Amazon a Starbuks, fino ad Apple. Per superare il problema, diversi paesi del Vecchio Continente hanno recentemente introdotto nei propri ordinamenti la cd “Google tax”, seppure con forme e condizioni differenti fra loro. Anche gli Stati Uniti sembrano orientati in questo senso: in occasione della presentazione del budget 2016, Barack Obama ha annunciato l’introduzione di una minimum tax del 14% sui circa 2mila miliardi accumulati fuori dai confini nazionali dalle multinazionali americane.