Un nuovo episodio di spudorata evasione, stavolta in una discoteca di Bologna, testimonia ancora una volta l’inefficacia delle politiche fiscali attuate negli ultimi anni.
I furbetti della movida colpiscono ancora. È una storia di ordinaria evasione in un ordinario venerdì sera quella documentata domenica scorsa, sulle pagine dell’edizione bolognese di Repubblica, dal giornalista Aldo Balzanelli. Una di quelle vicende che farebbe scalpore, se solo si trattasse di un caso isolato. E che invece è l’ennesimo desolante, plastico esempio – che va anche al di là dei pur eloquenti numeri– del completo fallimento delle strategie di contrasto all’evasione fiscale messe in atto dai vari governi che si sono succeduti in questi anni.
Protagonista del misfatto, una discoteca di Bologna. Premessa: non si tratta di metodi evasivi chissà quanto raffinati, anzi. Ma si sa, quando i controlli sono pochi e le sanzioni basse, non è poi così necessario far correre l’ingegno oltre il dovuto. La furberia di cui racconta Balzanelli funziona così: il locale è a ingresso libero, chi vuole entra senza pagare. Una volta dentro si riceve una tessera, che dà diritto ad una consumazione gratuita. Sul tagliandino ci sono una serie di simboli, dal guardaroba al drink, che vengono obliterati se si consuma. Il dovuto si sborsa alla fine: si va alla cassa e, una volta pagati ingresso e consumazioni, si riceve un bigliettino, detto “exit”, senza il quale il buttafuori non ti fa uscire. Ovviamente il tutto senza fare lo scontrino, troppa grazia. E se lo domandi, ti guardano pure di traverso: alle tre di notte, racconta ancora Balzanelli, la cassiera a cui lo chiede gli batte la ricevuta n.50 della serata, non senza qualche sbuffo. Delle due l’una: o il locale va particolarmente male- e non pare, a quanto scrive il cronista- oppure chi lo gestisce non si sforza nemmeno di salvare le apparenze.
Quei controlli del 2010. E dire che il fenomeno non è poi così sconosciuto, specie da quelle parti. Basti ricordare il blitz nelle discoteche emiliane effettuato la notte di Halloween del 2010, in attuazione di un accordo fra Agenzia delle entrate e Siae. Su otto locali controllati i risultati furono sorprendenti, e non in senso positivo: timbri sulle mani invece degli scontrini, discoteche camuffate da circoli associativi e, per non farsi mancar nulla, anche lavoratori impiegati in nero. In un locale di Modena furono contati 314 scontrini e 163 biglietti d’ingresso non emessi; ancora meglio fece una discoteca nel ravennate: 4 mila prevendite emesse completamente in nero, per un incasso di oltre 23mila euro. Superfluo sottolineare come il caso emiliano sia solo la fotografia di un fenomeno in realtà più ampio, diffuso praticamente in ogni angolo d’Italia; colpisce, però, come a quattro anni di distanza da quell’operazione poco o nulla sia effettivamente cambiato. Da questa vicenda è lecito trarre due conclusioni, entrambe inquietanti, che certificano ancora una volta come il problema dell’evasione fiscale sia stato in questi anni nascosto sotto al tappeto: da un lato l’attuale sistema sanzionatorio non è evidentemente in grado di scoraggiare i comportamenti evasivi; dall’altro i controlli, spesso estemporanei e quasi mai effettuati con regolarità – si ricordi il “celebre” blitz di Cortina-, non inducono gli esercenti alla fedeltà fiscale nel lungo periodo. Più di tutti, c’è un dato che ben sintetizza la reale volontà di contrastare l’evasione, e lo ha fornito mesi fa la Corte dei Conti: le piccole imprese italiane (il 96% del totale) che ricevono un accertamento fiscale sono in media tre su cento: in pratica “rischiano” di subire un controllo ogni trentatré (33) anni. Quando un numero vale più di mille parole.