Per i servizi idrici e ambientali paghiamo tariffe al di sotto della media europea, che consentono di coprire solo parzialmente i costi di investimento e rinnovo delle infrastrutture. Eppure la carenza di acqua e il deterioramento degli standard igienico-ambientali e’ la nuova, grande emergenza che l’umanita’ dovra’ affrontare nei prossimi decenni.
di Paolo Maggiore
La questione che si pone è quella dei finanziamenti necessari. L’alternativa al ricorso alla fiscalita’ generale puo’ essere individuata in un percorso legislativo che consenta al mercato di procedere ad adeguamenti tariffari che nel giro di almeno un decennio portino ad una autosufficienza dei settori, mantenendo in mano pubblica i necessari controlli. È indubbio che sia il Servizio Idrico Integrato che il Servizio di Igiene Ambientale abbiano un rilevante impatto nella vita di tutti i giorni e nella percezione popolare. Circa un miliardo di persone possiede un substrato decisamente buono dei due servizi e un altro miliardo infrastrutture definibili decenti. Rimangono oltre 4 miliardi e mezzo di abitanti del pianeta per i quali i servizi di cui stiamo parlando o sono inesistenti oppure del tutto insufficienti a coprire i loro bisogni.
Da più parti si afferma che nei prossimi 50 anni il principale problema mondiale sarà dato dall’approvvigionamento idrico e probabilmente è anche per questa ragione che la Cina ha messo le mani sulle riserve ghiacciate di acqua dolce presenti nel Tibet. Per tanti motivi quel miliardo di “benestanti” dovrà fare i conti con gli oltre 4 miliardi e mezzo di “diseredati” ai quali abbiamo preferito vendere le mine anti uomo anzichè i tubi per gli acquedotti. Ma torniamo ai dati oggettivi, il primo dei quali consiste nell’individuazione dei quantitativi di acqua utilizzata, mentre un secondo dato, certamente più significativo per le famiglie italiane, consiste nel carico economico che sopportano, non uniforme su tutto il territorio nazionale. Dai dati di uno studio effettuato da Legambiente, in Europa gli usi idrici sono così ripartiti: 46% per la produzione energetica, 30% per l’agricoltura, 14% per scopi civili e 10% per l’industria, ma con grandi variazioni tra i diversi paesi. In generale nei paesi del Nord prevalgono gli usi industriali, mentre al Sud prevalgono ovviamente gli usi agricoli.
L’Italia, rispetto ai valori medi europei, presenta una situazione molto diversa, con il settore agricolo responsabile della maggioranza dei prelievi complessivi. Dai dati dello studio dell’Irsa-Cnr effettuato nel 1999, che rimane ancora oggi, a distanza di otto anni, lo studio più completo e aggiornato sull’uso delle risorse idriche a livello nazionale (circa 42 miliardi di m3/anno di prelievo), l’uso agricolo a fini irrigui è al primo posto con il 49% del totale (oltre 20 miliardi di m3/anno), al secondo posto c’è il settore industriale che utilizza il 21% della risorsa (8 miliardi di m3/anno), seguiti da quello civile con il 19% (7 miliardi e 980 milioni di m3/anno) e infine quello energetico con l’11% (circa 6 miliardi di m3/anno). La ripartizione delle risorse idriche in base all’area geografica evidenzia nelle regioni Nord-Ovest l’uso maggiore, pari al 39% del totale nazionale, seguito dal Nord Est con il 27%, e dal Sud con il 15%. Al Nord Ovest si misurano i maggiori usi di acqua per il settore irriguo, industriale e Civile, mentre gli usi energetici sono più elevati al Nord Est. E’ utile specificare a questo punto la distinzione che c’è tra uso e consumo d’acqua, ovvero è importante distinguere fra l’acqua che è prelevata e l’acqua che è effettivamente consumata. Tra i diversi usi sicuramente l’irrigazione consuma la maggior parte dell’acqua prelevata (spesso la metà o anche di più) quale risultato dell’evaporazione, dell’inclusione nel raccolto, della traspirazione dalle piante, della ricarica della falda o del flusso superficiale.
I maggiori recuperi di risorsa potrebbero essere effettuati, quindi, nell’ambito degli usi civili e di quelli industriali che potrebbero restituire all’ambiente fino al 90-95% dell’acqua usata. Uso il condizionale in quanto l’acqua di scarico restituita dai sistemi fognari per usi urbani/domestici e quella proveniente dalle industrie spesso non sono trattate a dovere e quindi le acque, prelevate in buone condizioni, vengono restituite di qualità scadente se non addirittura pessima, necessitando di costosi interventi per consentire un successivo riutilizzo. In diverse zone italiane, con una oculata politica sociale, si è giunti a far accettare tariffe che, essendo più vicine alla media europea, consentono una copertura, sia pure parziale, dei costi di investimento e rinnovo delle infrastrutture. Dai dati disponibili si rileva come, ad esempio, per una famiglia bolognese il costo annuo del Servizio Idrico si aggiri intorno ai 200 euro, IVA compresa, mentre per una famiglia romana si sia intorno ai 140 euro annui. Per quanto riguarda il Servizio di igiene ambientale, pagato dagli utenti in circa 1.300 Comuni come corrispettivo, e nei restanti oltre 7.000 come tributo, è estremamente difficile raffrontare i dati economici, dato che vengono usati parametri totalmente diversi per la loro individuazione, fra i quali anche il numero degli abitanti di ogni singolo Comune.
Per rimanere in un ambito prettamente statistico, si può ritenere che una famiglia di tre persone che abiti in un appartamento di 90 mq a Bologna sopporti un costo annuo per il servizio di che trattasi (comprendente, si badi bene, la raccolta dei rifiuti, la pulizia delle strade, la tenuta dei parchi pubblici, lo sgombero della neve ed ogni altro costo che attenga all’igiene ambientale) di circa 220 euro. Se raffrontiamo i costi di cui sopra con il costo di una tazzina di caffè o di un pacchetto di sigarette ci si accorge dell’enorme divario economico esistente, per non parlare, per il raffronto sul Servizio Idrico, del costo al metro cubo dell’acqua minerale, superiore di più di 300 volte a quello dell’acqua distribuita attraverso la rete idrica. Eppure, le lamentele per gli aumenti del costo del caffè e delle sigarette sono tutto sommato insignificanti rispetto a quelli che si verificano quando i media enfatizzano i rincari dei servizi di che trattasi. Molto probabilmente in quanto questi ultimi vengono vissuti come un diritto di ogni cittadino. Le tariffe italiane rispetto alle tariffe europee sono nettamente inferiori, eppure la morfologia, l’orografia, la sismicità del nostro territorio, in buona parte carente di facilmente raggiungibili risorse idriche, determinano costi operativi di semplice manutenzione molto più elevati degli standard europei, per non parlare della necessità di costruzione di impianti e infrastrutture di cui è ancora carente buona parte del paese. Purtroppo, nei due settori sembra essere mancata una politica globale di intervento che, in alcuni casi, si è tradotta in scontri istituzionali per le carenze della legislazione esistente che non regge un confronto costituzionale. Due esempi chiariranno quanto sopra.
La Legge Galli (1994), nell’intento di favorire la costruzione dei depuratori, aveva stabilito che gli utenti delle zone non servite, purché allacciati alla pubblica fognatura, erano ugualmente tenuti a corrispondere la quota di depurazione, pur senza specificarne il titolo. Per 14 anni si è ritenuto che si dovesse trattare di un corrispettivo avente natura di contributo, alla stessa stregua dei contributi rete pagati dagli utenti al momento dell’allacciamento. Le risorse economiche così ottenute hanno consentito a molte città (l’esempio più eclatante è Milano) la costruzione dei depuratori. Purtroppo, la Corte Costituzionale interessata al problema, con la Sent. 335/2008 ha stabilito l’incostituzionalità della legge, vista la mancanza di un rapporto sinallagmatico con l’utente, il ché comporta la restituzione (sia pure a domanda) delle somme a suo tempo corrisposte che, peraltro, in buona parte non sono più nella disponibilità delle aziende che le hanno usate per costruire gli impianti necessari. È evidente come questa sentenza, pur perfettamente legittima e in buona parte condivisibile, è destinata a interagire pesantemente in un servizio dalle risorse economiche scarse rispetto alle necessità della collettività. Per quanto riguarda il servizio di Igiene Ambientale, l’art. 49 del DLgs 22/1997 aveva aperto la strada all’individuazione di una tariffa avente natura corrispettiva, lasciando ai Comuni la scelta del regime adottabile. Per circa 12 anni i 1.300 Comuni che hanno optato per la Tia – corrispettivo sono riusciti a migliorare notevolmente il servizio, costruendo inceneritori, discariche, impianti di trattamento rifiuti, che hanno consentito di ridurre la parte effettivamente non riciclabile a percentuali vicine agli standard europei. La legge però non era del tutto chiara e, dopo 12 anni, la Corte Costituzionale, con la Sent. 238/2009 ed in difformità da un parere espresso dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ha interpretato l’articolo citato come una prosecuzione di prelievo avente natura tributaria, sia pure con nome diverso dalla Tarsu.
Anche in questo settore si è quindi determinata una incertezza normativa fino a questo momento non superata da alcun intervento legislativo (quanto contenuto nel DL 78/2010 non permette alcuna chiarificazione per il passato e neppure per il futuro), a differenza di quanto fatto per la Sent. 335, anche con il positivo intervento della Corte dei Conti. Il breve excursus di cui sopra, se da un lato fotografa la situazione esistente, non individua alcuna risposta legislativa o politica per consentire l’inizio di un percorso virtuoso che possa oggettivamente migliorare i servizi stessi ed avvicinarli agli standard europei, pur fornendo alcuni spunti per iniziare una discussione programmatica di natura tecnico-politica. Dall’esame delle disposizioni prese e soprattutto dei problemi irrisolti si ha l’impressione di una “navigazione a vista”, forse anche per la preoccupazione di prendere decisioni impopolari. Per poter migliorare i servizi è necessario disporre di risorse economiche rilevanti, e queste possono essere ottenute fondamentalmente in due modi:
1) – Attingendo alla fiscalità generale e quindi andando nelle tasche dei cittadini per vie traverse (come viene fatto ad esempio nel trasporto pubblico locale, servizio in cui la necessità di salvaguardia delle fasce sociali più deboli obbliga le Regioni a consistenti finanziamenti non solo per il miglioramento delle infrastrutture, ma anche per le spese correnti non coperte dal costo dei biglietti)
2) – Individuando un percorso legislativo che consenta al mercato di procedere ad adeguamenti tariffari che nel giro di almeno un decennio portino ad una autosufficienza dei settori, mantenendo in mano pubblica i necessari controlli.
Personalmente ritengo che, con il quadro economico esistente, la seconda strada sia preferibile alla prima, dato che il prelievo tributario in Italia è già a livelli sostenibili con difficoltà, per cui sarebbe necessario un ulteriore indebitamento dello Stato (o degli altri enti territoriali se entrerà a regime il federalismo) per far fronte alle spese che l’adeguamento delle infrastrutture necessariamente comporta. La nostra situazione non credo sia tale da consentire questo indebitamento. Anche la seconda ipotesi fatta presenta notevoli difficoltà, ma i problemi sono già stati affrontati e in parte risolti nell’ambito di alcune Regioni che possono ben definirsi all’avanguardia in Italia, avendo favorito la costituzione di aziende societarie che operano nel mercato commerciale, sia pure in stretto contatto con gli enti pubblici di riferimento. Uno studio di Nomisma che verrà reso pubblico nel prossimo mese di ottobre è illuminante al riguardo. In Emilia Romagna, ad esempio, i servizi di che trattasi possono essere considerati soddisfacenti anche nell’immaginario collettivo. Inoltre, le cosiddette Utilities raggiungono il 5% del Pil regionale contro il 2% della media nazionale e consentono ai Comuni introiti per dividendi e canoni vari che nel 2008 hanno raggiunto la significativa cifra di 163 milioni.