L’introduzione di un prelievo sulle transazioni finanziarie penalizzerà l’operatività degli strumenti derivati. Un fatto certamente positivo anche in relazione agli indebitamenti che tali operazioni hanno determinato nei Comuni.
di Ipazia
La tobin tax introdotta con la legge di stabilità, approvata dalla Camera e ora all’esame del Senato, oltre a portare nelle casse dell’erario circa un miliardo di euro potrebbe avere anche il positivo effetto di scoraggiare il ricorso alla finanza derivata da parte degli Enti territoriali. La norma prevede un’imposta di bollo sulle compravendite di azioni di soggetti emittenti residenti in Italia e sulle operazioni in derivati (ad eccezione delle operazioni in derivati sui titoli di stato emessi dall’Italia o da altri stati dell’Unione europea con i quali c’è un adeguato scambio di informazioni) con un’aliquota unica pari allo 0,05% da applicarsi rispettivamente sul controvalore dell’operazione e sul valore nozionale di riferimento. La nuova imposta produrrà con tutta probabilità un congelamento interno delle operazioni in future e derivati e una delocalizzazione – in elusione d’imposta – delle transazioni verso l’estero. E proprio questo sembra il principale punto debole in quanto gli esperti concordano che una imposta come la tobin tax sarebbe efficace se adottata da tutti i paesi o almeno dalla gran parte di essi. Invece è noto che non tutti i paesi dell’eurozona sono orientati a introdurre la tobin tax e che la Gran Bretagna oltre ad essere fuori dall’euro si è sempre detta contraria a una imposta sulle transazioni finanziarie per frenare gli scambi speculativi.Anzitutto cerchiamo di focalizzare il problema creato nelle politiche di bilancio degli enti pubblici territoriali dalla sottoscrizione dei prodotti finanziari derivati, il cui trend positivo, come denunciato dalla Banca dei regolamenti internazionali in più occasioni, ha prodotto effetti devastanti.
La Banca dei regolamenti internazionali, infatti, ha evidenziato esponenziali volumi di crescita in miliardi di dollari tali da far intervenire in Banca Etica la proposta di istituire un’autorità internazionale che ponga limiti alle sottoscrizioni e alle opzioni negoziabili da parte di un singolo operatore[1].
Vediamo nel dettaglio cosa sono i derivati e quali criticità determinano sull’equilibrio finanziario e, in senso più lato, sulle scelte politiche degli enti locali, ossia su quella particolare tipologia di pubblico che, in considerazione della natura giuridica (Pa), rappresenta la maggiore fonte di apprensione per il risanamento della finanza pubblica nazionale.
Per “derivati” si intendono le attività finanziarie il cui valore dipende, per assiologia semantica “deriva”, dall’andamento di un’altra attività (cosiddetta sottostante) di natura anch’essa finanziaria (tasso d’interesse o di cambio in valuta estera, indice di prezzi o tassi, prezzo di una merce o di uno strumento finanziario) ovvero reale (materie prime, prodotti energetici), alla quale si sovrappongono. Per loro natura e flessibilità i derivati possono essere associati alle variabili più disparate, tasso di inflazione, indici di produzione e/o di prezzo, fattori atmosferici, con una proliferazione di strutture adattate alle specifiche esigenze a cui possono prestare copertura. Accanto a questi derivati più tradizionali, si sono venuti sviluppando con la cartolarizzazione dei crediti, derivati collegati al rischio di credito insito nell’operazione di finanziamento. La struttura sofisticata del derivato e la sua sospinta leva finanziaria, rendono tale strumento diverso dagli ordinari prodotti finanziari, obbligazioni ed azioni. In questi ultimi l’investitore impiega un capitale definito, soggetto ad un rischio di erosione ( in genere più modesto per i titoli obbligazionari e più audace per i titoli azionari). Per tali ragioni la corretta valutazione della complessità dei derivati e la piena consapevolezza dei rischi impliciti, richiedono conoscenze tecniche e di mercato, nonché informazioni e modelli matematici di elaborazione che soltanto una struttura specializzata é in grado di gestire: il risparmiatore e/o l’imprenditore, che non dispone di tali professionalità, conoscenze e strumenti, deve necessariamente rimettersi, in un rapporto fiduciario, alla valutazione dell’intermediario, oltre che alla trasparenza ed efficienza del mercato.
I fondi comuni, i fondi pensione, le fondazioni ed altri primari investitori istituzionali, per questo genere di prodotti finanziari, incontrano significative limitazioni di impiego, oltre che negli statuti, nelle stesse norme regolamentari dell’organo di vigilanza, che ne impediscono un utilizzo diverso dalle forme di copertura. Non a caso la normativa di vigilanza impone agli intermediari bancari, per operare su derivati, stringenti presidi organizzativi e sofisticate procedure di misurazione e gestione, sia dei rischi finanziari connessi ai derivati sia dei rischi di controparte.
La particolare natura di tale strumento rende, dunque, comprensibile che esiste un nesso di dipendenza tra il valore del derivato e l’attività cui esso accede dalla cui peculiarità discende il risultato finanziario conseguente.
Risale agli anni novanta la legittimazione normativa agli enti locali di rivolgersi al mercato dei capitali privati per finanziare gli investimenti ovvero risanare i conti pubblici.
In particolare il ricorso a tali prodotti come strumento di copertura dei rischi risale alla prima metà degli anni novanta e ha ricevuto un impulso determinante con la legge finanziaria per l’anno 1995 (legge 23 dicembre 1994, n. 724) la quale, come si ricorderà, è intervenuta in materia di accesso al credito da parte di regioni, province e comuni, eliminando il monopolio della Cassa depositi e prestiti e riconoscendo agli enti territoriali la facoltà accedere al mercati dei capitali con l’emissione di prestiti obbligazionari.
In tale ottica il Regolamento attuativo della finanziaria (Decreto del ministro del tesoro del 5 luglio 1996, n. 420) riconobbe la copertura obbligatoria al rischio di cambio attraverso i derivati nel caso di emissioni obbligazionarie in valuta.
Ciò che doveva presentarsi come un paracadute per i bilanci degli enti locali si è in realtà rivelato (ed è cronaca degli ultimi mesi) come un boomerang per i medesimi a causa dell’effetto moltiplicatore prodotto sull’indebitamento proprio dal meccanismo occulto e sottostante all’attività finanziaria, che caratterizza lo strumento di cui parliamo.
I dati sulle conseguenze sono ancora frammentari e il fenomeno è oggetto di analisi per le ripercussioni nefaste che il disallineamento degli enti produce sulla possibilità di attuare un progetto di federalismo fiscale non distorsivo e senza effetti di traboccamento (i tanti paventati cosiddetti spillover effects) che renderebbero la politica fiscale non ottimale.
Se, infatti,sono chiare le motivazioni che inducono l’ente territoriale ad utilizzare siffatti strumenti e sono note le tipologie presenti sul mercato restano ancora oscuri taluni aspetti critici, sia di natura prettamente finanziaria (la tipologia di swap consentita, il limite all’up front, ecc. potrebbe indurre una via di creazione di debito pubblico non pienamente compresa nella portata e nel rischio ) che di natura amministrativo-gestionale (come, ad esempio il rischio di incoerenza temporale che produce sbilanciamento della funzione obiettivo degli amministratori locali verso il breve periodo e la deresponsabilizzazione dell’ente).
Vediamo, prioritariamente, quali sono le finalità che giustificano il ricorso ai derivati. Esse sono molteplici ma tra tutte assumono rilievo:
– le esigenze di copertura dei rischi connessi alla gestione di un portafoglio;
– finalità speculative di esposizione al rischio nel perseguimento di un profitto;
– arbitraggio connesso al lucrare il profitto (senza rischio)- attraverso transazioni combinate- derivante dal differenziale di valorizzazione tra derivato e sottostante.
Le risposte a tali esigenze sono una varietà di strumenti che hanno conquistato il settore partendo da forme più semplici (quali future e forward[2], options[3], swap[4]) fino a raggiungere, come evoluzione di queste ultime ovvero come combinazione con altre tipologie, forme particolarmente complesse e difficili da individuare nella potenziale pericolosità.
Nella schematizzazzione delle tipologie più ricorrenti non va dimenticata anche quella che riguarda i derivati negoziati su mercati regolamentati( future e alcune options) e quelli negoziati su mercati non regolamentati (over the counter, Otc) tra i quali vanno annoverati swaps e options.
La differenza risiede nel fatto che i primi rispondono ad uno standard codificato nel senso che posseggono omogeneità di caratteri (prezzo, ammontare unitario e termini contrattuali) e sottostanno a precise regole di gestione (e di controllo) da parte dei soggetti autorizzati ad operare nonché di struttura. Viceversa nei mercati non regolamentati la definizione dei contratti è demandata alla volontà bilaterale dei contraenti che consensualmente ne stabiliscono il contenuto.
In questo vasto scenario lo strumento che ha maggiormente conquistato il mercato è stato in questi anni l’interest rate swap – ossia il contratto con il quale due parti si impegnano a scambiarsi ad una data prefissata, flussi di interessi calcolati su un capitale nozionale di riferimento per un periodo di tempo predefinito pari alla scadenza del contratto stesso – per sua attitudine a coprire il rischio di tasso di interesse.
Tale contratto, infatti, si è subito rilevato particolarmente appetibile e, pertanto, si è sedimentato nella pratica perché di più facile gestione rispetto agli altri per il fatto di essere non standardizzato, simmetrico (al guadagno di una parte corrisponde una perdita speculare per l’altra) e senza scambio di capitale (quest’ultimo, infatti, non viene trasferito tra le parti ma viene utilizzato esclusivamente come ammontare di riferimento per il calcolo degli interessi).
Con il decentramento delle funzioni agli enti locali, non accompagnato da un parallelo trasferimento di autonomia tributaria, gli enti stessi si sono ritrovati compressi nell’autonomia gestionale vulnerata dai tagli ai trasferimenti erariali prodotti dalla Riforma del titolo V della Costituzione ed esposti ad una progressiva ed irreversibile situazione debitoria che ha favorito l’utilizzo di canali di finanziamento alternativi quali, appunto, l’interest rate swap con rimborso del capitale a scadenza (bullet).
Si ricorderà che proprio prendendo atto della dilagante diffusione della pratica la finanziaria per il 2002 (la legge 28 dicembre 2001, n. 448), all’art. 41, aveva disegnato i contenuti degli strumenti di finanziamento e della gestione delle passività con precise regole.
L’art. 41 ha, infatti, previsto che le amministrazioni territoriali sono autorizzate ad emettere obbligazioni o contrarre mutui e prestiti con rimborso del capitale a scadenza (il detto bullet) affermando, a fronte dell’emissione dei titoli, l’obbligo di istituire un fondo di ammortamento reinvestibile o di un’operazione swap per trasformarlo in un titolo con ammortamento.
La stessa norma, inoltre, ha ammesso il ricorso a strumenti derivati diversi da quelli consentiti per la copertura del rischio di cambio che avrebbero trovato poi una specificazione nel successivo regolamento applicativo (il Decreto del ministero dell’economia e finanze n. 389 del 1 dicembre 2003) e nella circolare esplicativa n. 27 diramata dallo stesso ministero dell’economia e delle finanze il 27 maggio 2004.
I vincoli all’operatività in derivati per gli enti locali erano molteplici ma non sono serviti a mettere al riparo dalle criticità perché il vuoto normativo dovuto alla tardiva emissione del Regolamento attuativo non ha, nel frattempo, creato un solco di problematicità irrisolvibile anche per congiuntura economica negativa che ha messo in ginocchio la finanza locale.
Di fatto è accaduto che le amministrazioni hanno sottoscritto contratti finanziari per ottenere immediata liquidità (upfront) o per dilazionare le scadenze debitorie o, ancora, per rimodulare i flussi finanziari debitori alleggerendo le uscite immediate senza considerare gli effetti di medio-lungo periodo.
Tale trascuratezza non costituisce di sicuro errore scusabile ma nemmeno può essere stigmatizzata come imperizia perché tali valutazioni di analisi finanziaria richiedono una competenza specifica non presente normalmente negli organici degli apparati amministrativi pubblici, competenza che oltre tutto viene ulteriormente messa a dura prova dalla complessità delle clausole contrattuali tipica di tali negozi.
Il rischio di incoerenza temporale e di distorsione degli equilibri finanziari non visibile prima facie è emerso nel tempo determinando l’apprensione – nota alla cronaca solo recente – per un debito pubblico non gestibile nella portata e nel rischio.
Se solo si pensa che i contratti contengono clausole che fanno riferimento a tassi e indici presenti su mercati finanziari estranei a quelli dell’ente (New York, Hong Hong, Londra,ecc.) è comprensibile che l’alea espone a rischi imprevedibili ai quali l’ente può far fronte solo con ricontrattazioni con le banche senza poter mai uscire dallo stato di insolvenza.
Il timore che sta alimentando lo stato di all’erta nei mercati sta proprio nel fatto che la soggezione finanziaria si traduca in perdita di autonomia politica dovuta al fatto che le banche assumendo il ruolo di azionisti degli enti locali si arrogherebbero il potere di influenzarne le decisioni facendo leva sulla debolezza contrattuale della controparte.
Sulla base anche degli apporti derivanti dall’indagine conoscitiva avviata dalla Commissione finanze della Camera nel 2004 le leggi finanziarie 2007, 2008 e 2009 avevano imposto regole più rigorose nell’utilizzo dei derivati.
In particolare, la legge finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296) ha previsto che i contratti prima della sottoscrizione debbano essere comunicati al Dipartimento del tesoro del Ministero dell’economia e delle finanze il quale deve verificarne la conformità alla normativa vigente e, ove ravvisi violazioni, deve informare la Corte dei Conti affinché possa intervenire in virtù delle proprie competenze.
In ossequio al principio della trasparenza, inoltre, gli enti locali debbono trimestralmente fornire allo stesso ministero l’elenco delle operazioni effettuate nonché i dati relativi all’utilizzo del credito bancario a breve termine, ai mutui accesi presso soggetti esterni alla Pubblica Amministrazione, alle emissioni obbligazionarie e alle cartolarizzazioni.
I criteri e gli obbiettivi del legislatore della finanziaria 2007 sono stati condivisi anche nella finanziaria 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244) nella quale è stata maggiormente definita la necessità che le modalità contrattuali siano chiare e che esse vengano espressamente dichiarate in una nota allegata al bilancio.
Con la legge finanziaria del 2009 la normativa precedente viene ulteriormente modificata ed integrata, rimettendo ad uno specifico Regolamento del Mef l’individuazione delle tipologie di derivati consentiti, nonché le condizioni di rischio che possono essere assunte dagli Enti locali. Il mancato rispetto delle disposizioni regolamentari e l’ assenza in contratto di una specifica attestazione della conoscenza dei rischi, vengono sanzionati con la nullità del contratto stesso. Vengono inoltre accentuati i controlli della Corte dei Conti e vengono ampiamente estesi gli obblighi informativi e di trasparenza.
Nel rispetto dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, più che reprimere comportamenti poco corretti, si viene da un lato operando una “moral suasion” per indurre gli Enti territoriali ad una maggiore attenzione nella gestione dei prodotti derivati, dall’altro rafforzando, attraverso i provvedimenti dell’Organo di vigilanza, la struttura di “compliance” degli intermediari finanziari.
Solo dal 1 gennaio 2012 (in forza all’approvazione del dl 138/2011, successivamente convertito con modificazioni nella legge 148/2011) con l’applicazione sugli utili da derivati della stessa tassazione prevista per il mercato azionario, ossia un’unica aliquota del 20% sui redditi da capitale e sui redditi diversi di natura finanziaria si realizza una efficace incidenza sui rendimenti netti .
Gli interventi normativi sono stati disposti anche per rendere più coerente e responsabile l’attività degli amministratori locali che in passato hanno agito da sprovveduti. In tale tessuto normativo più attento alle implicazioni negative dei derivati ha avuto un ruolo determinante anche il recepimento della direttiva MiFid (n.2004/39/CE recepita nell’ordinamento italiano con il Dlgs 17 settembre 2007 n. 164) la quale ha imposto alle imprese di investimento l’obbligo di fornire ai propri clienti informazioni chiare e differenziate in ragione della tipologia di investitori (retail, investitori professionali di diritto[5] tra cui rientrano anche gli investitori pubblici (che il ministero dell’Economia individua e disciplina dopo aver sentito Consob e Banca d’Italia) e su richiesta, controparti qualificate).
La direttiva, tra l’altro, precisa che nei servizi di negoziazione e collocamento l’intermediario sia tenuto a verificare che il cliente conosca e sia consapevole, in base ad esperienza e professionalità proprie, dei rischi connessi all’operazione.
Le elevate sottoscrizioni da parte dei Comuni con forte esposizione debitoria e le rinegoziazioni sono le problematicità più diffuse e le concause del fenomeno distorsivo dell’incoerenza temporale al quale si è fatto cenno in precedenza.
Accade diffusamente, infatti, che l’amministrazione in passivo sia costretta ad incassare subito il premio di liquidità dall’intermediario ignorando gli oneri futuri. L’iniezione immediata di liquidità (contabilizzata tra le entrate correnti del bilancio di previsione) alimenta una vitalità che espande le spese correnti senza garantirne le sostenibilità futura con un effetto moltiplicatore difficile da arginare.
L’intervento normativo delle finanziarie citate mirava ad arginare tali fenomeni connessi alla complessità degli strumenti e alle rinegoziazioni che, traslando in avanti gli oneri delle operazioni di finanza derivata, producono uno scollamento tra l’Amministrazione che promuove e quella che di fatto deve sopportarne il carico insieme allo stigma della deresponsabilizzazione dell’amministratore.
Note:
[1] I timori della Banca Etica sono motivati dalla opportunità di scongiurare pericoli che hanno esposto in più di uno Stato grossi enti al fallimento. Basti citare il caso della Bear Stearns (la quarta Banca d’investimento degli USA ) salvata dal fallimento grazie all’intervento della FED mediante un prestito temporaneo; al Northern Rock salvato dal fallimento dalla Banca d’Inghilterra con un prestito enorme (35 miliardi di Euro) o, ancora, al caso della Societè Generale, la banca francese cui gli investimenti in derivati sono costati una perdita record pari a 4,9 miliardi di Euro.
[2] Future e forward sono contratti a termine con i quali le parti si impegnano a scambiarsi un determinato bene (merce, strumento finanziario, valuta) ad una certa scadenza futura e ad prezzo prefissato.
[3] Options sono contratti che conferiscono all’acquirente dietro corrispettivo (premio) la possibilità di acquistare (call optino) o di vendere (put option) una attività prestabilita in un termine certo (è la cosiddetta opzione europea) ovvero entro la stessa data (è la cosiddetta opzione americana).
[4] Swap sono i contratti mediante i quali due parti convengono di scambiarsi in date prestabilite flussi di cassa secondo uno schema convenuto.
[5] I clienti professionali di diritto sono gli intermediari finanziari, gli investitori istituzionali e le grandi imprese non finanziarie che superano almeno due di tre parametri dimensionali predefiniti a livello di bilancio civilistico. Rientrano nella categoria anche gli investitori pubblici.