C’è voluto il fallo di reazione del premier francese Francois Bayrou nei confronti del vicepremier italiano Matteo Salvini perché in Italia ci si ricordasse di una misura fiscale che ha avuto effetti distorsivi, come lo sconvolgimento dell’urbanistica milanese e l’esportazione dell’evasione a livello internazionale, senza produrre gli effetti positivi annunciati sull’economia e sulle entrate dello Stato. Ma più che un’alzata di scudi, alquanto tardiva e limitata, da parte dei cugini d’oltralpe contro i tanti paradisi fiscali europei, compreso il comodo e coccolato confinante lussemburghese, quella di Bayrou sembra una scenata di gelosia.
La scoperta dei giorni scorsi fatta tra Nizza e Ventimiglia, più volte denunciata da Fiscoequo.it, è che l’Italia dal 2016 risulta essere un “bel suol d’amore” anche per evasori fiscali planetari di media caratura e non solo per i nostrani.
In quel tempo il governo Renzi aveva introdotto un’imposta sostitutiva per i contribuenti esteri più facoltosi, dimenticandosi di prevedere un meccanismo di controllo sugli effettivi benefici generati da questa agevolazione fiscale. Ci si è detti, evidentemente, che l’ assenza dell’Italia nell’elenco dei paradisi fiscali europei tra i quali scegliere una felice allocazione di rendite finanziarie e profitti in nero doveva finire, introducendo però di riflesso nell’ordinamento il concetto – che poi negli anni successivi ha dilagato -, del “più guadagni meno paghi”.
Trascorsi otto anni, il governo Meloni, visto il successo nel portafoglio di manager e professionisti soprattutto del calcio e della moda, ha raddoppiato la posta.
Ma andiamo per ordine.
Alla fine del 2016, il governo Renzi ha introdotto con la legge di Bilancio per l’anno successivo, una tassazione agevolata per le persone che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia, a condizione di aver vissuto almeno nove anni sui dieci precedenti all’estero. Per essere considerato residente, il cittadino deve registrare la propria residenza anagrafica nel comune in cui vive presso l’ufficio anagrafe, il quale ne verifica “l’abitualità della dimora”. Grazie a questa norma, chi porta la residenza nel nostro Paese può decidere di pagare un’imposta forfetaria pari allora a 100 mila euro (da qui la definizione di “flat tax”) sui redditi prodotti all’estero, al posto della normale tassazione in vigore su questi redditi.
L’imposta scende a 25 mila euro per ciascuno dei familiari dei cittadini che decidono di usufruire dell’agevolazione. I beneficiari di questa imposta sostitutiva introdotta otto anni fa non sono tenuti a pagare le imposte sugli immobili detenuti all’estero. Obiettivo dichiarato di questa misura era favorire l’ingresso di investitori, che portassero la creazione di nuovi posti di lavoro. Ma è andata così?
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti durante la conferenza stampa di presentazione del decreto “Omnibus” dichiarava che fino ad allora “quanto abbiano reinvestito in Italia i beneficiari dell’imposta onestamente è molto difficile valutare”.
Secondo i magistrati contabili, in questi anni non sono state approntate specifiche rilevazioni per valutare la reale rispondenza della misura al suo obiettivo dichiarato di favorire gli investimenti in Italia da parte di soggetti non residenti. L’imposta sostitutiva, infatti, “appare principalmente indirizzata a favorire soggetti che possono ritrarre fonti di reddito da più Paesi e che trasferiscono la propria residenza in Italia per finalità lavorative (come nel caso, probabilmente frequente, degli sportivi professionisti), residenziali o per altre ragioni, senza tuttavia esigere – come pure ci si sarebbe dovuto attendere – un effettivo e tangibile collegamento con la realizzazione di investimenti produttivi nel nostro Paese”.
Oggi il ministero di Via XX settembre si appresta a stendere il testo di una nuova Finanziaria, ancora seguendo il modello “più spese (ma il Pnrr sta per finire), meno tasse (ma solo alle categorie di elettori di riferimento) e meno welfare (per tutti gli altri)”. Gli obiettivi resi obbligatori dalla postura del governo Meloni sono: provare a sostenere i robusti impegni di spesa militare e di pagamento di dazi assunti supinamente con Usa e Unione europea e affrontare imprese propagandistiche e oniriche come il Ponte sullo stretto di Messina, mentre l’economia sta entrando in recessione e la produzione industriale ha innestato la marcia indietro già da più di due anni.
Eppure una soluzione, sul fronte fiscale, nell’interesse del Paese ci sarebbe: far pagare le tasse a tutti, compresi grandi patrimoni, multinazionali e banche, secondo criteri di progressività, efficienza, equità e giustizia e redistribuire le entrate in sviluppo, lavoro e servizi.













