Di Luciano Cerasa
Niente di nuovo sul fronte della lotta all’evasione che più che una raffinata guerra-lampo digitale 2.0 combattuta incrociando banche dati, è diventata da tempo una stanca battaglia di posizione che riesce a logorare solo le entrate dello Stato. Il bollettino diffuso in occasione dell’audizione alla Commissione bicamerale da Enrico Giovannini, presidente della Commissione per la redazione della “Relazione annuale sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva”, annuncia che nel 2014 il tax gap, la differenza tra le imposte che si dovrebbero pagare e quelle effettivamente pagate, si è allargato a 111,6 miliardi di euro dai 108 miliardi del 2012. Nel triennio 2012-2014 la propensione all’evasione dei contribuenti italiani è salita così dal 23,6% al 24,8%, ma è una media da pollo di Trilussa: la differenza tra le imposte che si dovrebbero pagare e quelle effettivamente pagate è altissima per l’Irpef del lavoro autonomo e d’impresa, si attesta al 59%, mentre per il lavoro dipendente non arriva al 4%. L’Iva si conferma l’imposta preferita dagli evasori che se ne intascano almeno il 30%. Questo aumento, si legge nella relazione aggiornata che Giovannini ha illustrato alla Bicamerale, deriva per 844 milioni dall’evasione fiscale (+0,8% rispetto al 2013) e per un miliardo dall’evasione contributiva (+9,8% rispetto al 2013). I settori dove maggiore è l’evasione sono i settori a più bassa crescita di produttività, cioè dalle aziende che senza intascarsi imposte e contributi sarebbero fuori mercato da un pezzo. “l’Italia soffre di un problema di crescita della produttività da molti anni ed è evidente che nel momento in cui una impresa riesce ad andare avanti semplicemente attraverso l’evasione, ha molti meno incentivi a trovare una struttura più efficiente, ad investire, innovare, quindi l’evasione ha un ruolo molto importante in un generale grado di arretratezza del sistema economico” spiega Giovannini. Davanti alla marea montante l’Agenzia delle Entrate e i tanti soggetti che sulla carta sono deputati a fare ispezioni nei posti di lavoro per accertare l’evasione dei contributi si sono dotati di un secchiello: “Circa 200 mila soggetti sono verificati annualmente rispetto a quattro milioni di imprese” e ciò “mostra che c’è un limite fisico alla possibilità di indagini in loco” segnala l’ex ministro del Lavoro.
Qualcuno potrebbe dire che nel 2015 e nel 2016 le cose sono andate meglio, e infatti l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi rileva: “lo studio di Giovannini non contempla il 2015 e il 2016 in cui i risultati raggiunti sono un record storico di lotta all’evasione. Nel 2015 grazie al fisco 2.0 siamo arrivati a 14.9 miliardi di recupero dell’evasione e nel 2016 si è superato quota 19 miliardi, la media degli anni precedenti era più bassa era tra i 10 e i 12 miliardi”. Dati facilmente confutabili nella loro reale portata. Come abbiamo già segnalato su questo sito, l’apparente, accresciuto successo che sembra emergere dagli incassi realizzati negli ultimi due anni è dovuto in gran parte a quanto rientrato in Italia per effetto di un condono, la prima edizione della voluntary disclosure e dal giro di vite dei controlli automatici effettuati per pescare migliaia di piccoli errori formali tra le denunce dei redditi presentate.
Appare ben più reale e preoccupante il possibile effetto negativo che potranno avere sulla compliance dei contribuenti i nuovi provvedimenti adottati nell’ultimo biennio, dalla riedizione a maglie larghe della “voluntary”, alla rottamazione delle cartelle esattoriali, fino all’abolizione degli studi di settore e alla tassa a forfait sui ricchi paperoni internazionali.













