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mercoledì 16 Luglio 2025
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Lotta evasione, possibile recuperare miliardi con tassazione proventi corruzione

Le norme ci sono ma, forse, non sempre vengono applicate. Con procedure stringenti e tempi di intervento rapidi l’erario potrebbe recuperare somme ingenti.

di  Aulus Agerius

I proventi della corruzione, come di tutte le altre attività illecite, vanno tassati. La legge lo prevede ma non sempre avviene. Il fiume di denaro che alimenta gli scandali che coinvolgono pubblici amministratori, funzionari, manager di società pubbliche e private è ingente. Si tratta di miliardi che ogni anno, sotto forma di tangenti e altre indebite erogazioni, vanno a finire nelle tasche dei corrotti a danno della collettività. La casistica è vasta e registra illeciti di ogni tipo: si va dagli accordi manifestamente criminali – come forniture e appalti pubblici a prezzi gonfiati, finte consulenze e incarichi del tutto ingiustificati – fino a comportamenti più sfumati, nei quali non sempre emerge chiara la finalità dei favori fatti, che possono assumere magari la forma di acquisti o di vendite di beni e servizi a prezzi molto diversi da quelli di mercato accordati al beneficiario anche senza una manifesta finalità di scambio. Sarebbe allora interessante conoscere se il fisco intende recuperare qualcosa delle somme di cui si sono appropriati illecitamente un certo numero di consiglieri regionali e alcuni tesorieri di importanti partiti o degli indebiti benefici che avrebbe ricevuto negli anni scorsi qualche ministro della Repubblica. Per non parlare dei grandi arricchimenti illeciti legati agli appalti nel settore delle opere pubbliche. Si tratta di proventi che hanno generato un reddito per il beneficiario-percettore e che comunque, se non confiscati, devono essere ricondotti a tassazione. Potrebbe essere il tema, quello della tassazione dei proventi della corruzione, di una indagine parlamentare anche per individuare le ragioni che, eventualmente, non permettono di tassare tali proventi.

La corruzione, dunque, ha assunto in Italia dimensioni davvero inquietanti, tanto da collocarci in fondo alle classifiche sulla trasparenza e la correttezza[1]. In uno scenario così degradato anche la recente legge per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione (legge 6 novembre 2012, n. 190) costituisce una risposta tardiva e probabilmente poco efficace, che difficilmente potrà modificare nel breve il basso livello etico che contraddistingue frequentemente i rapporti socio-economici nel nostro Paese. A questo proposito va ricordato che, oltre alle “tradizionali” misure messe in campo per contrastare le attività illecite nella vita pubblica (come, ad esempio, quelle che prevedono maggiore trasparenza degli atti amministrativi e delle persone che governano le pubbliche amministrazioni, quelle che rafforzano i controlli interni ed esterni o quelle indirizzate ad una più energica e tempestiva repressione del white-collar crime), anche l’ordinamento fiscale può fornire un contributo utile a scoraggiare e reprimere la corruzione. Vediamo allora, in sintesi, quale è il quadro normativo in materia.

Il principio generale di tassabilità dei proventi illeciti. L’art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, stabilisce che “nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”. Con tale norma, che la giurisprudenza della Cassazione[2] e l’amministrazione finanziaria[3] hanno qualificato di natura interpretativa, il legislatore del 1993 ha inteso rafforzare la risposta dello Stato a quanto era emerso a seguito delle clamorose inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta che hanno preso il nome di “Tangentopoli”, affermando esplicitamente un principio generale di tassabilità dei proventi di provenienza illecita.

Secondo quanto stabilito dalla norma del 1993, la tassabilità dei proventi illeciti è comunque subordinata alla riconducibilità degli stessi in una delle categorie reddituali previste dall’art. 6, comma 1, del testo unico (redditi fondiari; redditi di capitale; redditi di lavoro dipendente; redditi di lavoro autonomo; redditi di impresa e redditi diversi). L’inquadramento del provento illecito in una delle categorie reddituali è rilevante anche ai fini dell’applicazione dei diversi criteri di determinazione della base imponibile assoggettata ad imposta e, in particolare, dei principi di competenza e di cassa. La tassazione dei proventi illeciti è invece preclusa nell’ipotesi in cui gli stessi siano già sottoposti a sequestro o confisca penale e sempreché il provvedimento ablatorio sia intervenuto entro lo stesso periodo d’imposta nel quale si realizza il possesso fiscale del reddito. Infatti, in considerazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, la Cassazione ha ritenuto che, ai fini della non imponibilità dei proventi illeciti, “non assuma rilievo la mera possibilità di una futura confisca, bensì unicamente quella già avvenuta nel periodo d’imposta al quale si riferisce l’accertamento”[4].

Il più ampio principio di tassabilità imposto dall’art. 36, comma 34-bis, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223. L’ambito applicativo della norma di interpretazione autentica introdotta dalla legge n. 537 del 1993, è stato definitivamente chiarito con l’art. 36, comma 34-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, secondo il quale “in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 , si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi”. Con l’intento di chiarire la portata della norma introdotta nel 1993, il legislatore del 2006 ha definitivamente sancito il principio di tassabilità di tutti i proventi illeciti, indipendentemente dal loro inquadramento in una species reddituale. Gli stessi proventi infatti, qualora non siano classificabili nelle categorie previste all’art. 6, comma 1, del Tuir, devono comunque essere considerati come “redditi diversi”.

E’ evidente come l’intervento normativo in commento risponda all’esigenza di attrarre a tassazione qualsiasi incremento patrimoniale derivante da un illecito civile, amministrativo o penale, a prescindere dalla non sempre agevole qualificazione reddituale. Ciò si è reso necessario in quanto il testo unico entrato in vigore nel 1988 aveva abbandonato la previsione generica di “redditi provenienti da qualsiasi fonte”[5] e, a differenza della normativa precedente, non contemplava disposizioni di chiusura nelle quali inquadrare i proventi illeciti[6]. L’art. 67 del Tuir contiene, infatti, un’elencazione tassativa di singole fattispecie imponibili senza alcuna previsione di carattere residuale. In particolare, le fattispecie di “redditi derivanti…dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”, individuate alla lettera l) del suddetto art. 67, si prestano ad accogliere i proventi illeciti connessi con rapporti sinallagmatici, ma non anche quelli che facciano astrazione da ogni nesso di reciprocità.

Si può affermare, in sostanza, che il legislatore del 2006 ha implicitamente introdotto un’ulteriore ipotesi di reddito di carattere residuale nell’art. 67 del Tuir, al fine di assoggettare a imposizione anche i proventi illeciti non riconducibili nelle diverse categorie reddituali previste, come, ad esempio, i proventi di un furto o di una “tangente” o i benefici comunque illecitamente percepiti da un pubblico ufficiale. Va ricordato come siano stati sollevati dubbi in merito alla efficacia retroattiva della norma di modifica dell’art. 14, comma 4, della legge n. 537 del 1993, recata dall’art. 36, comma 34-bis, del d.l. n. 223 del 2006. Alcuni commentatori ritengono che l’intento di introdurre nel sistema dell’imposizione sui redditi una fattispecie residuale, ampliando le ipotesi di tassazioni esistenti, renda manifesta la natura innovativa della norma in esame, con efficacia dunque solo per il futuro (ex nunc). L’espressione utilizzata dal legislatore, tuttavia, secondo cui “la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 , si interpreta nel senso che”, non sembra ammettere alcun dubbio in ordine alla volontà di attribuire alla norma efficacia retroattiva.

L’Agenzia delle entrate, con circolare 4 agosto 2006, n. 28/E ha chiarito che “interpretando autenticamente il testo della disposizione riportata, il comma 34-bis dell’art. 36 stabilisce che qualora i proventi illeciti non siano classificabili nelle altre categorie di cui all’art. 6, comma 1, sopra richiamato, i medesimi vengono inquadrati, anche ai fini della loro determinazione, nella categorie dei redditi diversi di cui agli artt. 67 e seguenti del Tuir”. D’altro canto, la Corte di cassazione, con pronuncia 7 agosto 2009, n. 18111, ha affermato che “il problema della corretta qualificazione del reddito derivante da attività illecita (per sua natura di più difficile classificazione, a causa della imprevedibilità dei percorsi della criminalità economica) non può costituire pretesto per escludere la tassazione quando non vi sia una perfetta sovrapponibilità con le categorie reddituali tipizzate secondo i canoni delle attività legali: eventuali margini di oscillazione sono fisiologici, ma non per questo possono privilegiare i proventi da illecito considerandoli non tassabili”.

L’obbligo di denuncia delle violazioni tributarie da parte da parte degli organi inquirenti e giudicanti. Il principio generale della tassabilità ai fini dell’imposta sul reddito dei proventi illeciti può trovare effettiva applicazione soltanto se tutti coloro che istituzionalmente vengono a conoscenza degli illeciti e, in particolare, degli illeciti corruttivi, siano consapevoli di tale principio e comunichino tempestivamente all’autorità fiscale i fatti rilevati. A questo proposito va rammentato l’obbligo di comunicazione delle violazioni tributarie sancito dall’art. 36, quarto comma, del DPR 29 settembre 1973, n. 600, recante “Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi”. Secondo tale disposizione, infatti, “I soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza nonché gli organi giurisdizionali, requirenti e giudicanti, penali, civili e amministrativi e, previa autorizzazione, gli organi di polizia giudiziaria che, a causa o nell’esercizio delle loro funzioni, vengono a conoscenza di fatti che possono configurarsi come violazioni tributarie devono comunicarli direttamente ovvero, ove previste, secondo le modalità stabilite da leggi o norme regolamentari per l’inoltro della denuncia penale, al comando della Guardia di finanza competente in relazione al luogo di rilevazione degli stessi, fornendo l’eventuale documentazione atta a comprovarli”. Si tratta, dunque, di un obbligo generale di segnalazione che incombe su coloro che svolgono attività ispettive o di vigilanza, sugli organi giurisdizionali e sulla polizia giudiziaria (preventivamente autorizzata).

Note:

[1] Nell’indice sulla corruzione percepita del 2012 (CPI) Transparency International colloca l’Italia al 72° posto con un punteggio di 42. Si tratta di una valutazione analoga a quella della Bosnia.

[2] Tra le altre Cass. N. 18111 del 2009.

[3] Circolare n. 150 del 1994 del Dipartimento delle entrate.

[4] Cass. 21 ottobre 2008, n. 28574

[5] Art. 1 del previgente DPR n. 597 del 1973, secondo il quale “Presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi, in denaro o in natura, continuativi od occasionali, provenienti da qualsiasi fonte”.

[6] Ai sensi dell’art. 80 del previgente DPR n. 597 del 1973, “Alla formazione del reddito complessivo concorre ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati nelle disposizioni del presente decreto”.

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