di Milena Gabanelli e Francesco Tortora – corriere.it) – I paradisi fiscali non stanno solo in sperdute isole dei Caraibi. La maggior parte del denaro sottratto al fisco finisce in Paesi occidentali che garantiscono regimi tributari vantaggiosi e un’elevata dose di segretezza, e dove ogni anno le multinazionali trasferiscono in media 1.100 miliardi di dollari, il 16% dei loro profitti (Qui pag. 19 e 21). Parliamo di centinaia di miliardi che ogni anno vengono rubati agli Stati. Di fatto sono dunque loro, i grandi colossi, a mettere le mani in tasca ai cittadini, sottraendo risorse destinate ai servizi pubblici essenziali come scuola, sanità e infrastrutture. Vediamo come funzionano i meccanismi ai confini della legalità negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nell’Unione europea.
In 6 anni trasferiti 6.550 miliardi di dollari
Si chiama pianificazione fiscale aggressiva ed è una forma di elusione che sfrutta le differenze e le lacune tra i vari ordinamenti a vantaggio delle grandi aziende. Secondo l’ultimo rapporto del Tax Justice Network, organizzazione non governativa che da anni monitora l’effetto dei paradisi fiscali sull’economia mondiale, tra il 2016 e il 2021 le grandi aziende hanno trasferito oltre 6.550 miliardi di dollari in Paesi a bassa tassazione, facendo sparire circa 1.717 miliardi di entrate fiscali. In testa della classifica ci sono le corporation statunitensi, che hanno sottratto al fisco 495 miliardi di risorse pubbliche.
Ma come funziona in pratica questo meccanismo che si chiama Transfer pricing, e consente di non pagare tutte le tasse dove gli utili sono stati effettivamente prodotti? La multinazionale americana che opera in diversi Stati europei gonfia i costi delle sue controllate ubicate in Paesi ad alta tassazione (come Italia o Francia) attraverso la vendita dei diritti di brevetto o altri beni immateriali. In questo modo riduce gli utili locali e trasferisce i profitti alla filiale del gruppo situata in Lussemburgo, dove le imposte sono enormemente più basse. Grazie a queste strategie, le aziende statunitensi hanno registrato il 24% dei loro profitti globali in Paesi dove le imposte sono minime. Le destinazioni più gettonate sono l’Irlanda, Gibilterra e gli stessi Stati Uniti.
Il salto di qualità è arrivato nel 2017, durante la prima presidenza Trump, con l’entrata in vigore del Tax Cuts and Jobs Act, norma federale che ha ridotto l’aliquota sui redditi delle aziende dal 35% al 21% e introdotto un ulteriore sconto sul rientro dei profitti generati all’estero. Le prime ad approfittarne sono state le Big Tech, che hanno riportato in patria buona parte dei profitti parcheggiati principalmente in Lussemburgo, Bermuda, Paesi Bassi e Porto Rico. Quindi sommando la riduzione dell’aliquota e lo sconto per il rimpatrio, Meta lo scorso anno ha avuto una tassazione dell’8,4%. Nel 2016 la sua aliquota effettiva sugli utili superava il 33%. Chi non ha ottenuto vantaggi sono i cittadini americani: i salari pagati dalle multinazionali sono rimasti stazionari, l’occupazione non è cresciuta, mentre il fisco ha perso 574 miliardi di dollari, di cui quasi la metà imputabili ad aziende statunitensi.
Con Trump II per le multinazionali Usa va ancora meglio: il presidente ha annunciato il ritiro dall’accordo Ocse sulla Global Minimum Tax approvata da più di 140 Paesi in tutto il mondo nel 2021 e l’uscita degli Stati Uniti dai negoziati per l’istituzione di una Convenzione quadro delle Nazioni Unite sulla cooperazione fiscale internazionale. In più ha minacciato dazi doganali ai Paesi che impongono tasse sul digitale o stabiliscono limiti normativi all’operatività delle aziende tecnologiche statunitensi: «Gli Stati Uniti – taglia corto il Tax Justice Network – sono diventati una chiara minaccia alla sovranità fiscale dei Paesi, inclusa la propria».
Gran Bretagna
Il Regno Unito è responsabile del 23% delle perdite fiscali globali generate dai grandi gruppi (Qui pag.8). Ad esempio, le Isole Vergini Britanniche e le Isole Cayman non applicano alcuna imposta sul reddito delle società e non richiedono la presentazione e la pubblicazione dei bilanci aziendali. E infatti in queste due isole c’è la più alta concentrazione al mondo di società registrate in rapporto alla popolazione. Se la cavano bene anche le isole del Canale (Man, Jersey e Guernsey). Alle Bermuda non si pagano tasse su dividendi e plusvalenze. Questi territori autonomi, tra l’altro, facilitano il trasferimento di flussi finanziari illeciti e sono usati per ripulire utili che provengono da evasione fiscale e riciclaggio di denaro. Al centro di tutta la rete c’è la City di Londra, che fa da snodo finanziario: qui le società convogliano i profitti «dopo averli dirottati attraverso le giurisdizioni satellite, in modo da pagare meno tasse altrove» (Qui pag.25). Ma questo enorme flusso di denaro che viaggia da una parte all’altra del mondo non produce alcun beneficio alla popolazione britannica. Complessivamente le multinazionali che operano nel Regno Unito hanno causato allo Stato tra il 2016 e il 2021 una perdita di gettito di oltre 53 miliardi di dollari. Dall’anno fiscale 2024 saranno tenute però a pagare la Global Minimum Tax che impone ai gruppi con un fatturato globale superiore a 750 milioni di euro una tassa minima del 15% sui profitti, indipendentemente da dove vengono realizzati.
Unione europea
Anche nella Ue si applicherà la tassa minima globale e come per Londra la prima dichiarazione dovrà essere presentata entro il 30 giugno 2026. In più le multinazionali dovranno pubblicare un report annuale con informazioni su ricavi, utili e imposte versate in ciascun Paese membro in modo da incentivare la trasparenza fiscale. Nell’Unione il quadro resta tuttavia variegato: oggi esistono 27 sistemi fiscali distinti e grandi differenze sulle imposte societarie che vanno dal 29,9% della Germania al 9% dell’Ungheria.
Come Bruxelles combatte l’elusione fiscale
Le multinazionali nella Ue sono obbligate a:
1) versare la Global Minimum Tax
2) pubblicare un report annuale con informazioni su ricavi, utili e imposte versate in ogni Paese membro
Tasse societarie in Europa
Il potere di introdurre, eliminare o modificare le imposte resta di competenza degli Stati
Per adottare direttive fiscali comuni serve l’unanimità, ma gli sforzi di Bruxelles per armonizzare le aliquote sono ostacolati da una lunga lista di Paesi considerati veri e propri paradisi fiscali all’interno dell’Unione, tra cui Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta e Cipro. Il Lussemburgo è la seconda piazza finanziaria al mondo per fondi d’investimento (5,6 trilioni di euro di asset gestiti), sede di 115 banche internazionali e di numerose multinazionali, tra cui ArcelorMittal, Amazon, Spotify e la holding Aylo, la più grande società mondiale nel settore del porno online. Qui l’imposta nominale sulle società è del 23,87%, ma la tassazione effettiva di tante holding risulta molto più bassa perché il Granducato offre imposte ridotte o nulle su royalties, dividendi e interessi. Nel 2014 lo scandalo LuxLeaks ha svelato accordi segreti tra il fisco lussemburghese e almeno 350 aziende e banche internazionali tra cui Apple, Amazon, Ikea, Pepsi, UniCredit e Intesa Sanpaolo, che pagavano anche meno dell’1% di tasse sugli utili.
- L’Irlanda è la sede dei quartier generali europei di Apple, Microsoft, Meta, Google, Shein e di giganti farmaceutici come Pfizer e Eli Lilly. Qui si applica un’aliquota sulle società del 12,5%, una delle più basse d’Europa. Nel corso degli anni molte multinazionali hanno ridotto ulteriormente il carico fiscale ricorrendo a complesse triangolazioni finanziarie che garantiscono forti deduzioni e detrazioni così da abbassare drasticamente la base imponibile. Apple era arrivata a pagare come imposta societaria lo 0,05%, tant’è che nel 2016 la Commissione europea le ha inflitto una multa da 13 miliardi di euro.
L’esito finale di questo sistema è una perdita secca per i maggiori Paesi dell’Unione, quelli più popolati e che più hanno bisogno di gettito fiscale per garantire servizi di qualità ai loro cittadini.
Sempre dal 2016 al 2021 alla Francia sono stati sottratti 116 miliardi, alla Germania 110, alla Spagna 33, all’Italia 22 e alla Polonia 17.













