Nel contrasto all’evasione superare la linea frammentaria e contraddittoria degli ultimi anni. L’ex ministro nel corso di un’audizione al Senato rilancia l’dea di utilizzare la leva fiscale per ridurre il costo del lavoro e suggerisce di evitare l’aumento di altri 2 punti di Iva previsto per fine anno.
L’elevata evasione fiscale resta uno dei nodi centrali del sistema tributario del nostro paese. Ogni ipotesi di contenere la pressione fiscale, ormai lanciata verso il 45% del pil, passa dunque per un significativo aumento della fedeltà fiscale e della contestuale riduzione della spesa pubblica. Vincenzo Visco ascoltato dalla commissione finanze del Senato nell’ambito di una indagine conoscitiva sulla riforma fiscale evidenzia gli stretti margini di intervento tenuto conto dei vincoli di bilancio. Tra gli obiettivi principali da perseguire, accanto alla lotta all’evasione, la riduzione dell’Irpef sui redditi medio bassi anche attraverso un intervento deciso subito e attuato in più anni in relazione alla disponibilità delle risorse. Inoltre occorre proseguire nella riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro e puntare ad evitare, o almeno dimezzare, il secondo incremento dell’aliquota Iva che dovrebbe scattare alla fine del 2012, utilizzando i proventi che potrebbero essere ottenuti dalla riduzione delle cosiddette “spese fiscali”.
La pressione fiscale. Negli ultimi anni, quelli compresi tra il 2008 e il 2010, la pressione fiscale in Italia si è attestata intorno al 43% del Pil. Nel 2011, a causa delle misure discrezionali introdotte, è aumentata e nel 2012 e negli anni successivi supererà il 45%. L’Italia quindi è un Paese ad alta tassazione come risulta anche dai confronti internazionali, inferiore soltanto a quella dei Paesi del nord Europa. La riduzione della pressione fiscale in Italia per quanto auspicabile, considerate le caratteristiche economiche dell’Italia (Pil pro-capite ormai inferiore alla media europea, piccole imprese, carenza di capitali privati, ecc) che suggerirebbero una diminuzione media dell’onere fiscale di alcuni punti di Pil, risulta tuttavia molto difficile da realizzare date le caratteristiche strutturali della nostra spesa pubblica che per quanto riguarda le pensioni e gli interessi eccede quella degli altri Paesi europei di circa 5 punti di Pil. L’obiettivo della riduzione della pressione fiscale in Italia va perseguito, ha concluso dunque Visco, ma con la gradualità richiesta dalla necessità di ridurre contestualmente la spesa pubblica ristrutturandone l’erogazione, aumentando l’efficienza e limitandone la dinamica.
Il sistema fiscale italiano: quali differenze con quelli degli altri Paesi europei? Le differenze principali tra il fisco italiano e quello degli altri Paesi europei non sono trascurabili, ha aggiunto l’ex ministro nella sua audizione, sia pure in un contesto strutturale molto simile. E sono le seguenti: 1) l’entità della evasione, molto più alta in Italia che altrove (esclusa la Grecia); 2) il peso eccessivo dell’imposta personale (l’Irpef) rispetto al gettito delle altre imposte, soprattutto per quanto riguarda i redditi da lavoro, con effetti ovvi e negativi sul cuneo fiscale e il costo del lavoro; 3) la minore incidenza del prelievo sui consumi (Iva e accise) frutto principalmente dell’evasione, ma che ha giustificato il recente aumento di ben 3 punti dell’aliquota ordinaria dell’Iva; 4) la ridotta e poco uniforme tassazione dei redditi di capitale (anche dopo l’unificazione di molte aliquote al 20%). La recente riforma dell’imposta locale immobiliare ha viceversa attenuato la distanza su questo aspetto del sistema fiscale italiano rispetto a quelli europei.
L’Irpef. «L’Irpef è l’imposta più rilevante del sistema tributario italiano il cui gettito supera l’11% del Pil risultando di circa 2 punti superiore a quello medio degli altri Paesi. Il prelievo è particolarmente squilibrato e oneroso per quanto riguarda i redditi da lavoro dipendente, con una impressionante tendenza ad un peggioramento nel corso del tempo». Analizzando i dati relativi all’Irpef nel periodo intercorso tra gli anni ’80 del secolo scorso e gli anni più recenti, Visco ha inoltre sottolineato «non solo la necessità di accelerare il recupero della evasione ( prevalente tra i redditi non di lavoro dipendente) e di accrescere l’imposizione sui redditi di capitale, ma anche l’urgenza di una correzione strutturale dell’imposta che è diventata sempre più gravosa, sia in termini assoluti che relativi, soprattutto per i redditi medi». «Rendere “piatte” le detrazioni Irpef è quindi il principale obiettivo che una riforma della imposta dovrebbe porsi – ha spiegato Visco – Inoltre sarebbe opportuno ridurre l’aliquota del 23% al 20%, e quella del 38% al 36%, in modo da rendere più uniforme la progressività della imposta riducendo al tempo stesso progressività e incidenza per i redditi medi e medio bassi che oggi sono quelli relativamente più penalizzati. Infine per i redditi molto elevati ( oltre il milione di €) si potrebbe anche ipotizzare un’aliquota superiore a quella del 43%».
L’Iva. «Il recente incremento dell’aliquota ordinaria dal 20 al 21%, e successivamente dal 21 al 23% desta qualche perplessità, anche se va riconosciuto che tali aumenti sono stati decisi in condizioni di gravissima difficoltà finanziaria». Per quanto riguarda l’Imposta sul valore aggiunto, l’ex ministro ha sottolineato la necessità di cercare di «evitare, o almeno dimezzare, il secondo incremento dell’aliquota che dovrebbe avvenire alla fine del 2012, utilizzando i proventi che potrebbero essere ottenuti dalla riduzione delle cosiddette “spese fiscali”».
Riduzione del costo del lavoro. La riduzione del costo del lavoro e del cuneo fiscale come ulteriore obiettivo della riorganizzazione del nostro sistema fiscale. E’ questo un altro punto analizzato dal’ex ministro nel corso dell’audizione in Senato. «In proposito da più parti si ipotizza una progressiva riduzione, fino all’eliminazione, della componente costo del lavoro dell’Irap, con un onere valutabile tra i 10 e i 13 mld. Ma – ha sottolineato Visco – dal momento che l’Irap è un’imposta regionale nata per contribuire al finanziamento della sanità: ogni erosione della sua base imponibile crea disparità di trattamento in quanto verrebbe meno il contributo specifico delle categorie di reddito escluse dall’imposta al finanziamento di un importante servizio pubblico. Molto meglio, aggiunge, sarebbe ridurre le aliquote contributive e unificarle al livello del 27 o 28% -6 o -5 punti rispettivamente, con un costo compreso tra i 7,8 e i 10 miliardi. In questo modo il cuneo fiscale si ridurrebbe di circa 3 punti cui si aggiungerebbero 3,5 punti derivanti dalla riforma dell’Irpef prospettata in precedenza». Secondo Visco il modo più corretto, anche dal punto di vista teorico, per finanziare questo intervento consisterebbe nel rafforzamento della cosiddetta tassazione ambientale e in particolare il ripristino di una carbon tax sulle emissioni di gas serra e sui combustibili fossili in base al contenuto di carbonio. Il che consentirebbe anche di facilitare il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni concordati a livello internazionale.
L’evasione. L’ex ministro ha infine sottolineato come l’elevata evasione fiscale sia certamente il problema principale del sistema fiscale italiano. «Per risolvere il problema – ha spiegato Visco – è necessaria una decisa convergenza bipartisan sia tra le forze politiche che all’interno dei singoli partiti». Il ricorso a sostituti di imposta là dove è possibile o la diffusione ed estensione di strumenti elettronici dalle fatture elettroniche, all’elenco clienti e fornitori (che è oggi sicuramente la fonte di tracciabilità più importante), alla trasmissione telematica dei corrispettivi nel commercio al dettaglio o nei distributori automatici nei cui confronti manca ogni controllo. Sono alcune delle misure efficaci e nel complesso poco costose per i contribuenti analizzate da Visco. L’ex ministro ha sottolineato poi l’importanza di disincentivare l’uso del contante con misure specifiche per settori e situazioni specifiche: dall’obbligo di pagamento solo con strumenti tracciabili per le attività professionali, o per il pagamento di canoni o oneri deducibili o detraibili, al divieto dell’uso del contante per il pagamento delle retribuzioni o di altri compensi. L’uso di strumenti di pagamento elettronici può essere esteso poi, come avviene in altri Paesi (Francia, Belgio), anche alle micro-transazioni dalle consumazioni al bar, all’acquisto del giornale, all’autobus, al taxi, introducendo il cosiddetto “borsellino elettronico” vale a dire carte di pagamento collegate a un conto bancario che possono progressivamente sostituire gran parte del contante negli usi e abitudini quotidiane. La disposizione contenuta nel d.l. 201 che prevede la trasmissione delle operazioni finanziarie dalle banche al fisco, secondo Visco inoltre, è un elemento molto importante per la lotta all’evasione. Se non fosse che la norma non è formulata in modo adeguato: «quello che sarebbe stato necessario ottenere – ha detto l’ex ministro – sono poche informazioni relative alle transazioni iniziali, finali e medie dei conti, e all’entità complessiva delle transazioni effettuate. Un accesso adeguato alla banca dati potrebbe essere utile a molti fini, per esempio come strumento di integrazione dell’Isee, limitando spese ed abusi».
Secondo Visco insomma molto resta da fare, sia nelle impostazioni generali, che nelle scelte concrete e negli strumenti adottati e utilizzati. La linea seguita dal governo, infatti, appare a suo avviso frammentaria, contraddittoria e a volte episodica. «Per quanto i risultati degli accertamenti siano migliorati negli ultimi anni e il recupero complessivo del gettito abbia raggiunto circa 11 miliardi – ha concluso – la quota sul totale di somme non derivanti da accertamenti veri e propri arriva a circa il 40%».