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giovedì 1 Maggio 2025
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Guerra dei dazi: la normalizzazione dei mercati e la ripresa passano anche per il fisco

L’inaspettata comunicazione, arrivata via social, di una sospensione per novanta giorni degli annunciati dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti, ma solo a beneficio dei paesi che, a insindacabile giudizio del presidente Donald Trump, si sono mostrati più “disponibili”,  non ha fatto altro che confermare l’inizio di un’era di caos e di erraticità in cui sono stati precipitati i mercati finanziari e commerciali mondiali dalla prima economia del globo.

La tempistica con cui sono state fatte sprofondare e poi risalire in poche ore con picchi a due cifre le quotazioni delle principali Borse dei 5 continenti, proietta anche l’ombra di una grossolana e facile speculazione da parte di chi detiene le leve del potere, che si aggiunge all’inaffidabilità delle strampalate teorie che sembrano guidare le scelte dell’attuale inquilino dello studio ovale a Washington.

L’economia statunitense è stata portata dallo scellerato ping-pong con Pechino a un passo dalla soglia critica, facendo crollare contemporaneamente, in un modo del tutto inusuale, sia gli indici di Borsa che il mercato dei titoli di Stato, utilizzato in genere come una “comfort zone” dagli investitori spaventati dalle temperie passate di Wall Street.

La variabile impazzita che in questo caso ha scombinato le teorie e le consuetudini dell’economia fin qui sperimentate ruota intorno ai massicci investimenti nel debito pubblico statunitense operati dalla Cina nell’ultimo decennio. Attualmente nel portafoglio titoli di Pechino vi sarebbero quasi 800 miliardi di dollari in bond a stelle e strisce che lo pone al secondo posto dopo quello del principale sottoscrittore estero, il Giappone.

L’ondata di vendite che ha investito nelle scorse ore il Tesoro americano facendo impennare i tassi d’interesse e il costo del servizio del debito dei titoli pubblici sarebbe stata compensata dallo “strong buy” lanciato dalle altre banche centrali a sostegno di Washington. Quanto questo soccorso forzato sia costato all’istituto di emissione europeo e quanto debba essere considerato a rischio, viste le oscure prospettive, non è ancora dato sapere.

L’Europa, fino a poche ore fa, ha preparato un menù di reazioni all’entrata a gamba tesa di Trump poggiato su due piatti forti: contro-dazi sui beni importati e sostegno finanziario ai bilanci delle imprese investite dalle misure protezionistiche. Il secondo provvedimento, accettato e sollecitato anche in Italia da governo e opposizioni, ha però il non piccolo difetto di trasferire il costo dei dazi dai consumatori americani ai bilanci pubblici europei. In questo modo Trump coglierebbe come si suol dire due piccioni con una fava: fare cassa a spese del resto del mondo ma senza reazioni negative nell’opinione pubblica interna, che ne trarrebbe solo benefici.

“Un tale intervento da parte dei paesi europei rappresenterebbe un grave errore, e sarebbe autolesionistico” spiega a Fiscoequo.it l’ex ministro delle Finanze e del Tesoro, Vincenzo Visco.

“I dazi hanno in prima battuta un duplice effetto: aumentano il prezzo dei beni importati per il Paese importatore e ne riducono le quantità domandate – sottolinea Visco –  inoltre, rendendo disponibile, a parità di produzione, una maggiore quantità dei beni per il mercato domestico, tendono a ridurre i prezzi nel Paese esportatore. A più lungo termine si raggiungerà un nuovo equilibrio, che comporta minore produzione complessiva e un prezzo tanto più elevato, quanto più rigida è la domanda del paese importatore. Il dazio viene quindi pagato dai consumatori che importano i beni (gli americani), mentre il costo per gli esportatori consiste in una minore produzione dei beni esportati, e quindi meno occupati, minori redditi”.
 
“Se in questa situazione si interviene a sussidiare le imprese esportatrici colpite dai dazi, il risultato sarà che esse potranno produrre e vendere a costi e prezzi più bassi, e quindi difendere la loro quota di mercato a spese, però, dei contribuenti dei Paesi che elargiscono il sussidio e a beneficio dei consumatori americani” conclude l’ex ministro.

Se questo è il quadro di breve periodo, diventerebbe allora necessario e lungimirante cercare di porre basi macro economiche diversificate che, al di là della contingenza, possano condurre le nostre società a lidi meno infidi e più sicuri dell’economia di guerra e del protezionismo, in un sentiero di crescita sociale e economica solida, al riparo dai capricci di oltre oceano.

I cinesi, principali avversari di questa guerra di lungo periodo che non si fermerà alle schermaglie sui dazi, puntano ora sul gigantesco mercato interno e pensano che per prima cosa sarà necessario aumentare il reddito e distribuire più ricchezza ai consumatori. Sul piano finanziario Pechino annuncia di voler tagliare i tassi e inietterà più liquidità a lungo termine nel sistema bancario “ogni volta che sarà necessario”. La Cina ha anche spazio per espandere la spesa pubblica, dichiarano a Pechino. L’altra arma a disposizione è svalutare lo yuan rispetto al dollaro. Quel che possono offrire i cinesi al mercato mondiale, oltre alla loro tradizionale funzione deflazionistica, è una classe media composta ormai da oltre 400 milioni di consumatori, che si aggiungono ai miliardi di consumatori di area Brics.

In Giappone prima della bufera da ovest si stava valutando la reintroduzione di sussidi per assorbire almeno in parte gli aumenti delle bollette di luce e gas, mentre continua il percorso di una normalizzazione dell’economia troppo stagnante con una moderata inflazione, robusti aumenti salariali e progressivi rialzi dei tassi d’interesse.

In Europa e in particolare in Italia – paese esportatore e con un margine assai ristretto di manovra per ulteriori esposizioni debitorie – oltre all’apertura o al consolidamento di mercati energetici e commerciali alternativi alla rotta atlantica, si presenta la necessità di una robusta iniezione di risorse pubbliche e private per far ripartire, dopo venti anni di stagnazione, la domanda interna, da convertire in consumi, salari, investimenti in infrastrutture sociali e fisiche. Con quali soldi?

Nel nostro paese, esaurito il serbatoio del Pnrr, portatore anch’esso di indebitamento e preclusa la strada di ulteriore spesa in deficit, assume particolare rilevanza lo strumento fiscale come supporto alla riconversione produttiva e allo sviluppo. Due i sentieri da battere: rendere più ripida la curva della progressività dell’imposizione su redditi e profitti di persone fisiche e società e intercettare gli enormi profitti delle multinazionali del web realizzati sul mercato interno chiudendo la sponda dei paradisi fiscali.

Trasformare le digital tax nazionali esistenti in un’unica normativa europea antielusiva, o in alternativa lavorare su una nuova “accisa digitale” valida in tutta l’Unione, è la proposta che si sta facendo strada a Bruxelles anche in chiave pressoria e ritorsiva, visti i profili dei principali sostenitori di Trump.

La fiscalizzazione dei grandi oligopolisti dell’economia digitale è sicuramente un nervo sensibile sia per l’attuale che per le passate amministrazioni statunitensi, ma anche una fonte di risorse, equità e giustizia fiscale per i cittadini europei.
“L’idea di una digital tax su base unionale è appropriata – dice al Sole 24 ore Giuseppe Marino, ordinario di Tributario alla Statale di Milano, avvocato e commercialista – ma ancor più affascinante è la proposta di un’accisa digitale che replica quella “fisica” sulle estrazioni minerarie: in fondo il principio è il medesimo, estrazione di ricchezza da un territorio con un’imposta trattenuta alla fonte». Secondo Marino l’obiettivo da perseguire, a prescindere dallo strumento giuridico, è il medesimo, intercettare per via tributaria il valore trasferito alle big-tech. “Tra l’altro – chiosa il docente milanese – l’accisa è già un tributo armonizzato e quindi è già nel raggio d’azione della Commissione”.
Sebbene l’idea sia affascinante, la sua concreta realizzazione non è banale, perché richiede la condivisione di tutti gli Stati membri.

Tra i dazi di Trump e l’instabilità economica, l’Italia ha già chiesto un miliardo a Meta, X e Linkedin per Iva non versata. Queste somme coprono l’intero periodo d’indagine, dal 2015 al 2022, ma l’avviso di accertamento per ora notificato riguarda esclusivamente gli anni 2015 e 2016.

Mark Zuckerberg rifiuta per ora di saldare i conti con il Fisco italiano, forse alla ricerca di un accordo.

A parere della GdF, che ha condotto l’attività di verifica, la gestione dei social media sarebbe già assoggettabile ad Iva in applicazione dello schema della permuta, ossia l’utilizzo delle piattaforme social da parte degli utenti, dietro la concessione dell’analisi (e monetizzazione) dei loro dati personali e sensibili. Rispetto a questo teorema, Meta ha sempre dichiarato il proprio totale disaccordo.

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