venerdì 26 Aprile 2024
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Riforma fisco, tassare il patrimonio per ridurre prelievo su lavoro e imprese

Sono tre i grandi problemi del fisco: un livello di tassazione tra i più elevati, un’evasione insopportabile e una distribuzione distorta del prelievo che grava soprattutto sul lavoro e sulle imprese. Tassare i patrimoni per attenuare l’imposta sul reddito di persone e società.

di Yoda

Utilizzare la rifirma fiscale per rendere il sistema più equo e redistribuire il carico fiscale invertendo la tendenza che negli ultimi anni ha portato alla progressiva estromissione dalla tassazione i redditi da capitale o di natura finanziaria e speculativa. Tenendo conto che l’elevato debito pubblico non consente di ridurre il carico impositivo globale l’ipotesi su cui avviare la riflessione è proprio quella di valutare in che modo far contribuire i redditi che ora non sono tassati o che comunque sono fuori dalla progressività al gettito erariale. Importante è chiarire subito che una eventuale patrimoniale non può essere aggiuntiva e comunque non deve contribuire ad un complessivio inasprimento del prelievo ma deve diventare lo strumento per redistribuire il carico.

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Iil reddito complessivo delle persone fisiche su cui si applicano le alte aliquote progressive Irpef è infatti composto per oltre l’80 per cento da redditi di lavoro dipendente e di pensione (la “retribuzione differita” di chi ha contribuito, in passato, alla creazione della ricchezza, come ha stabilito la Corte di Giustizia della Comunità Europea). Dalla progressività del sistema restano invece esclusi, per motivi diversi, sia le rendite finanziarie – a seguito degli interventi normativi che si sono succeduti negli ultimi decenni – sia una parte consistente dei redditi del lavoro c.d. ‘autonomo’ di professionisti, commercianti e piccole imprese, perché più facilmente essi possono essere (e sono) evasi. I redditi di capitale, e la gran parte dei redditi diversi di natura speculativa sono infatti assoggettati ad imposizione separata o sostitutiva con modeste aliquote proporzionali, che incidono nella stessa misura (e non in misura crescente) sui redditi più alti. La loro ‘estromissione’ dal coacervo del reddito complessivo costituisce, un vulnus ormai inevitabile rispetto al sistema tributario che l’art. 53 della Costituzione vuole sia informato a criteri di progressività affinché tutti concorrano alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Esso è il risultato di un processo inarrestabile e pressoché generalizzato: perché garantisce un prelievo alla fonte su redditi di natura particolarmente mobile (soprattutto dopo la rimozione dei limiti alla libera circolazione dei capitali), facendone gravare la responsabilità su sostituti o intermediari; perché è di immediata e semplice applicazione e, pur incidendo su elementi di reddito lordi, meglio protegge le esigenze di ‘riservatezza’ di contribuenti residenti e non residenti. La necessità di garantire il finanziamento del debito pubblico, fornendo all’Erario strumenti per arginare la fuga all’estero dei capitali italiani e attrarre i capitali esteri disponibili sul mercato globale, ha altresì alimentato, nel tempo, una significativa divaricazione delle aliquote proporzionali applicabili a queste tipologie di redditi che si erano andate ‘assottigliando’ in ragione del loro grado di volatilità: dal 27% sui depositi bancari dei residenti e titoli ibridi, al 12,5% di titoli obbligazionari fino alla completa esenzione per molti dei depositi e dei titoli detenuti da soggetti non residenti.

Infine, le rendite sono, almeno in parte, il frutto del risparmio delle famiglie, ossia di ciò che residua di redditi già assoggettati (o che avrebbero dovuto essere assoggettati) a tassazione con forti aliquote progressive. Ed è questa considerazione, oltre all’emergere di una pluralità di soggetti titolari del tributo (le autonomie locali insieme allo Stato) che ha portato ora ad escludere dall’Irpef anche le rendite di natura immobiliare, con il recente assoggettamento dei canoni di locazione immobiliare ad imposizione proporzionale con la cedolare secca. Ciò che, inoltre, non è compreso né nel reddito complessivo assoggettato all’imposta sul reddito delle persone fisiche, né nella base imponibile (soggetta alle imposte sul reddito e all’Irap) delle imprese di qualsiasi natura giuridica è la vasta platea dei redditi evasi o elusi.

Redditi occultati che si tramutano in stock di ricchezza patrimoniale (immobili, attività finanziarie , beni rifugio …) tanto maggiore quanto più elevate sono le imposte evase . Come ha recentemente sottolineato la Banca d’Italia, la ricchezza degli italiani si incrementa annualmente molto di più del reddito che essi hanno dichiarato all’Erario ed è facile concludere che nel patrimonio delle famiglie – quello ‘visibile’ in Italia, quello trasferito all’estero o coperto da veicoli societari e contrattuali di vario genere – si nascondono “riserve occulte” di utili mai tassati; affluiti direttamente alla sfera individuale di imprenditori e soci.

Perché possiamo anche parlare di imposta patrimoniale? Non può essere ‘tabù’ parlare – al di là del nomen iuris – di imposta patrimoniale. Del resto, cosa è stato, se non una vera e propria patrimoniale, il condono sulle attività detenute all’ estero del governo Berlusconi che prevedeva l’applicazione di un’imposta sostituiva sullo stock (e non sui flussi) delle attività di qualsiasi tipo detenute all’estero? Anzi era un prelievo che, in cambio dell’anonimato, era applicato su attività patrimoniali lorde, che potevano essere suddivise in differenti tranche, per evitare di fare emergere e comunque ‘disvelare’, all’Erario, e agli stessi soggetti incaricati di intermediare il rimpatrio o la regolarizzazione delle singole quote, la consistenza complessiva del patrimonio estero.

E cosa è oggi diventato il prelievo sui depositi titoli, introdotto con la manovra del governo Berlusconi se non una patrimoniale in grado di azzerare gli interi rendimenti ed intaccare lo stock stesso dei piccoli risparmi delle famiglie? Peggio, una patrimoniale strisciante che incide di più sui patrimoni più piccoli, camuffata da imposta di bollo.Tanto vale parlarne e trovare soluzioni nuove ed eque rispetto ad un ordinamento che, certamente, non è ‘il migliore dei mondi possibile’. Peraltro, tutti i grandi paesi prevedono forme diverse di tassazione dei grandi patrimoni e l’Italia ha motivi ulteriori per esplorarne la fattibilità. C’è l’esigenza di mantenere, con l’Unione europea, l’ impegno al pareggio di bilancio, e deve – in ogni caso – prevalere la necessità di accrescere la competitività e l’equità complessiva del sistema, recuperando risorse in grado di ridurre le imposte che oggi gravano sul lavoro e sulle imprese.

Quale patrimoniale? Un’imposta straordinaria con aliquote più elevate che incidono sullo stock o un’imposta ordinaria con aliquote moderate coperta con i flussi alimentati dal patrimonio? Diverse sono le opzioni che sono state prospettate e tutte escludono i patrimoni inferiori ad una determinata soglia. Giuliano Amato ha proposto un’imposta patrimoniale straordinaria, da applicare con aliquote sufficienti a drenare, una tantum, le risorse necessarie a conseguire l’obiettivo dell’equilibrio del bilancio pubblico: un prelievo che sicuramente inciderebbe sulla consistenza dello stock e non solo sui rendimenti, ma darebbe un segnale forte di discontinuità. Altri commentatori, e tra essi il presidente di Assonime Luigi Abete, hanno invece proposto un’imposta – definita contributo per la trasparenza e la crescita (Ctc) – applicabile in via ordinaria con aliquote molto basse.In tal caso, il prelievo potrebbe essere coperto con i flussi, ossia con i redditi annualmente generati dai grandi patrimoni mobiliari e immobiliari, senza ridurne la consistenza. Si configurerebbe più che come una vera e propria patrimoniale, come un’impostaaddizionale” sulle grandi rendite. Le due opzioni non sono necessariamente alternative: la prima avrebbe infatti un immediato effetto benefico sul deficit; ma solo la seconda potrebbe provocare effetti strutturali di riequilibrio dell’intero sistema tributario. Un’imposta ordinaria con aliquote moderate, complementare alle normali imposte personali rafforzerebbe il principio costituzionale di capacità contributiva, ampliando la tassazione sui redditi generati dai patrimoni finanziari e immobiliari e sui relativi incrementi di valore totalmente o parzialmente esenti da Irpef.

Inoltre, potrebbe essere lo strumento per tassare, sia pure moderatamente, anche i redditi evasi nel passato – in periodi d’imposta che non possono più essere oggetto di accertamento – che si sono ‘fissati’ in attività mobiliari e immobiliari; oppure in particolari tipologie di beni durevoli, oggetti d’arte, imbarcazioni e simili che – non producendo redditi – sfuggono sempre a qualsiasi forma di prelievo. E, se acquisiti in passato, sfuggono anche allo spesometro, con il quale si tenta dii tassare il reddito non dichiarato nel momento in cui la spesa sostenuta per consumi appare incompatibile con quanto dichiarato nello stesso anno. In ogni caso, è relativamente più facile misurare, piuttosto che il reddito, il patrimonio di una persona fisica; almeno quello visibile o tracciabile. Certo, se dovessimo cominciare a parlarne in modo approfondito, ci troveremmo di fronte a problemi complessi , con diverse opzioni tecniche di differente impatto. Costruire una nuova imposta è un percorso tecnicamente molto complesso e se ne può parlare in un pubblico dibattito on line come da tempo si usa nel Regno Unito. C’è da discutere quali beni includere nella base imponibile, a quale valore, come stabilire la soglia esente da escludere, quali aliquote applicare e su quali scaglioni eccetera.

Ma la prima, e più rilevante, alternativa di cui discutere è tra un’ imposta sul patrimonio netto della persona fisica da dichiarare annualmente o un prelievo applicato alla fonte su singole attività lorde per mantenere l’anonimato dei titolari e indurre più facilmente alla compliance? Un’imposta ‘patrimoniale’ ordinaria con aliquote modeste su patrimoni netti superiori a determinate soglie richiede la dichiarazione del contribuente – privandolo del beneficio dell’anonimato – e potrebbe favorire lo smobilizzo dal Paese dei patrimoni più mobili o il loro crescente occultamento mediante strumenti societari e contrattuali di protezione. Perché dunque non valutare, quantomeno in via transitoria, la possibilità per il contribuente di conservare, per opzione, l’anonimato con il prelievo alla fonte su singole attività lorde? C’è un problema di trasparenza, ma , nel contempo c’è anche la necessità di affinare, nel tempo, i mezzi necessari ad evitare fughe e occultamenti. La trasparenza è un obiettivo globale da perseguire con una più incisiva presenza dell’Amministrazione nel contrasto agli ordinamenti opachi ed un crescente impegno ad implementare efficienti scambi di informazioni conformi agli standards Ocse con tutti gli ordinamenti, compresi quelli più opachi, a livello fiscale e societario.

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1 COMMENTO

  1. Premesso che appartengo alla categoria dei lavoratori dipendenti e dato per scontato che le analisi riportate siano corrette nei termini, mi sento di fare queste due semplici osservazioni: per tassare un reddito, occorre garantire le condizioni per produrlo. Se il reddito prodotto viene eccessivamente tassato, diventa meno conveniente produrlo nelle analisi riguardo alla progressivita, onestamente eccessiva, occorrerebbe inserire i valori di evasione e di elusione del reddito, dovuti a fattori piu o meno morali. In Italia ci sono milioni di persone (la stima ufficiosa parla di piu di 4 milioni) che non guadagnano cosi tanto per poter pagare con le proprie tasse i servizi che ottengono dallo Stato. Ovvero dipendono dalle tasse pagate dagli altri lavoratori. Molto interessante, anche perche dimostra che e inutile fare riforme sulla sola IRPEF se si vuole ottenere progressivita. Il nostro fisco colpisce come ricchi i redditi da lavoro di 50 000 Euro lordi e non considera minimamente chi incassa decine di volte di piu con redditi da rendite e capitale. Forse bisognerebbe spiegarlo anche a qualche politico.

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