L’imposta sarà divisa in due componenti, Tasi e Tari. Una parte sarà a carico degli inquilini e i comuni potranno decidere le aliquote. Gli esempi negli altri Paesi europei.
In principio era l’Ici. Siamo all’inizio della seconda Repubblica, nel 1992 e quella che nasce come imposta straordinaria sugli immobili molto presto si trasforma in una delle entrate più importanti per i comuni italiani. Fino a che il governo Berlusconi nel 2008 non la abolisce sulla prima casa. Una scelta che mostra subito tutti i sui limiti a tal punto che lo stesso governo ripropone l’imposta, col nome di Imu, nell’ambito delle norme sul federalismo fiscale. Toccherà comunque al governo Monti, pressato dalla necessità di far quadrare i conti, anticiparne l’entrata in vigore ed estenderla di nuovo alle abitazioni principali. Ora il nuovo passo: niente più Imu, al suo posto arriva la Service Tax. Non certo una novità assoluta in quanto già il governo Amato nel 1992, con Goria alle Finanze aveva proposto una imposta sui servizi comunali (Iscom) poi naufragata per via della crisi di governo. Al netto delle polemiche e dei cambiamenti che fino al 15 ottobre, ma anche oltre, potranno essere apportati alla nuova creatura tributaria, la Service tax è destinata a sostituire dall’1 gennaio l’imposta municipale unica (Imu) e la tassa sui rifiuti (Tares). Sono ancora tante le incertezze e il lavoro di definizione andrà avanti fino alla legge di stabilità dove saranno inseriti tutti i dettagli. Si tratta comunque di una tassa già presente in altri Paesi e le cui linee guida sono già fissate.
Cos’è la Service Tax. E’ una tassa di tipo federalista sui servizi resi al cittadino. Saranno i Comuni a decidere modalità e parametri dell’imposta, con un tetto massimo stabilito a livello centrale. In attesa dei dettagli precisi, il governo ha già spiegato che la Service tax si baserà su due componenti. La prima – Tari – è di fatto quella che sostituisce la Tares. Sarà dovuta da chi occupa, a qualunque titolo, locali o aree suscettibili di produrre rifiuti urbani. Le aliquote, calcolate in base ai metri quadrati, saranno parametrate dal Comune con ampia discrezionalità ma nel rispetto del principio comunitario “chi inquina paga”. «Sono alcune indicazioni della comunità europea, come quella di differenziare il costo del servizio in funzione della virtuosità del cittadino», spiega Angelo Cremonese, docente di Economia dei Tributi alla Luiss Guido Carli di Roma. «Più si mette in atto la raccolta differenziata, più si partecipa a dei programmi che tendono a ridurre la spesa di smaltimento e di raccolta del rifiuto urbano meno si paga. Questi provvedimenti però finora sono stati solo ipotizzati e oggi si parla ancora di una tassazione sui metri quadri che non tiene conto più di tanto del reale utilizzo dello smaltimento: non c’è grande differenziazione ad esempio fra una casa vuota e una con 10 persone che la abitano e in questo modo non c’è un grande rapporto fra il servizio e il costo». La seconda componente – Tasi – sarà, ha specificato il governo, a carico di chi occupa fabbricati e sarà il corrispettivo pagato per i cosiddetti servizi indivisibili, come l’illuminazione o lo stato dello strada. Anche in questo caso sarà il Comune ad avere la massima flessibilità potendo scegliere come base imponibile o la superficie o la rendita catastale. La seconda parte della Service tax sarà a carico sia del proprietario (in quanto i beni e servizi pubblici locali concorrono a determinare il valore commerciale dell’immobile) che dell’occupante (in quanto fruisce dei beni e servizi locali). Ma c’è un rischio: «Questa componente è stata pensata in parte per creare un nuovo gettito in sostituzione dell’Imu» avverte ancora Cremonese «e su questa si giocherà la gran parte di possibilità di recuperare il flusso finanziario che è venuto meno con l’abrogazione dell’Imu. La nuova Service tax sarà molto variabile da comune a comune e da tipologia di immobile, però potrà attestarsi fra i 100 e i 200 euro all’anno, sugli immobili medi».
Gli esempi di Regno Unito e Francia. Nel Regno Unito si chiama “council tax”: si tratta di una tassa introdotta negli anni ’90 che serve per pagare i servizi locali che arrivano fino a quelli di pubblica sicurezza. La base imponibile della council tax è costituita dal valore degli immobili. La particolarità è che la tassa viene versata da chi effettivamente utilizza i servizi locali, quindi non per forza il proprietario, ma chi occupa l’appartamento. Sono poi previste delle esenzioni, come ad esempio per le case inoccupate, in caso di abitanti disabili, oppure single che, presumendo il minor uso di servizi, pagano il 25% in meno. Questa tipologia d’imposta è stata comunque criticata perché non tiene conto del reddito delle persone che devono pagarla, ma utilizza come base imponibile solo il valore dell’immobile, con il rischio di essere quindi un’imposta regressiva. L’altro esempio è quello francese dove, come spiega ancora Cremonese, «esistono due tassazioni sugli immobili: la taxe fonciere che paga il proprietario e la taxe d’habitation che viene pagata da chi occupa l’immobile e quindi o dall’inquilino o dal proprietario se è egli stesso a occupare l’immobile». Ma altri esempi, aggiunge il professore, si trovano anche in Spagna e Germania dove «sono presenti imposte similari a questa nuova tassazione, anche se più articolate». Insomma, la tassazione sugli immobili che è nata con l’Imu e che oggi vede una combinazione fra Imu e Tares sembra essere in linea con quanto previsto anche negli altri Paesi che fanno della fiscalità immobiliare un importante risorsa per gli Enti Locali.
Era necessario cancellare l’Imu? Oggetto di dibattito ormai da più di un anno, questa argomentazione ha trovato nuovi spunti dopo il decreto che ha cancellato l’imposta. «Invece di cancellare l’Imu si sarebbe potuto intervenire con dei correttivi che aumentassero la progressività, ne riducessero la regressività e tendessero ad aiutare le fasce più deboli di patrimonio e reddito della popolazione» sostiene ad esempio il professor Cremonese che aggiunge: «Abrogarla significa comunque che non la paga sia chi possiede un patrimonio che consentirebbe tranquillamente il pagamento sia chi non lo ha». Non è un caso che i vincoli di finanza pubblica e la rigidità della spesa pubblica hanno determinato la necessità di creare altre imposte che sostituissero il gettito di circa 4 miliardi venuto meno con l’Imu, «così si è consolidata una tassazione che come elemento positivo ha un’impronta fortemente federalista, ma ovviamente i vincoli di spesa che hanno i comuni determineranno la necessità di intervenire anche in maniera elevata» sostiene il professore.
Il rischio è che, dall’Imu, alla Service tax, dalla tassazione che si sta rivedendo sulla cedolare secca alle rendite catastali allo studio per una rideterminazione, tutti questi provvedimenti che si stanno concentrando sugli immobili renderanno il peso nella sua complessità abbastanza più oneroso che un tempo. «Bisogna stare attenti a non forzare troppo la mano sugli immobili che sono un settore trainante per l’economia e se si deprime più di tanto si rischia di avere un effetto congiunturale non positivo» chiosa Cremonese «è giusto valutarlo, ma con attenzione, moderazione e dosando anche in base a singole categorie di contribuenti». Il pericolo insomma è quello di aver cancellato l’Imu, ma di non essersi liberati di una tassa dall’importo incerto e probabilmente ancora molto, troppo gravoso.