Il tema del trattamento fiscale delle criptovalute è divenuto di stringente attualità. Dal loro esordio sul web nel 2009, si sono diffuse rapidamente grazie a tassi di rendimento di rivalutazione esponenziali determinati dalla domanda. Nel 2016 le nuove monete digitali sono entrate nella lente d’ingrandimento del fisco.
L’articolo 1, comma 2, lett. qq, D.Lgs. 90/2017, definisce la criptovaluta una “rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi è trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
In precedenza l’Agenzia delle entrate con la risoluzione 72/E/2016 ha stabilito che la criptovaluta è una tipologia di moneta “virtuale” utilizzata come “moneta” alternativa, la cui circolazione si fonda su un principio di accettazione volontaria da parte degli operatori privati. Il possesso di valute virtuali è diventato così rilevante ai fini delle imposte sui redditi delle persone fisiche, generando, nel caso di plusvalenze, un reddito diverso, tassabile in base all’articolo 67 Tuir.
Ogni conversione di criptovaluta che generi plusvalenza (sia nel caso di operazione contro una valuta legale, sia nel caso di operazioni contro altra criptovaluta) è soggetta a tassazione con l’aliquota ordinaria del 26%. L’assoggettamento a tassazione è prevista solo per giacenze medie annue superiori a 51.645,69 euro.
I detentori di criptovalute sono obbligati a indicare l’ammontare posseduto nel quadro RW del modello per le persone fisiche, ma soltanto nei casi in cui siano depositate presso intermediari non residenti.
La determinazione dei risultati effettivamente conseguiti è quindi complessa. Le transazioni avvengono in maniera anonima attraverso la “blockchain”, i tassi di cambio non sono fissati in un mercato ufficiale e sono soggetti ad oscillazioni molto consistenti anche nel corso di una sola giornata.
In pratica è comune la valutazione tra gli analisti che la tassazione delle criptovalute è quasi impossibile, perché i trasferimenti non sono tracciabili. Gli acquisti, le vendite e tutte le transazioni effettuate mediante bitcoin o cripto valute in generale avvengono nel più totale anonimato, anche perché non è identificabile il possessore del bitcoin o della criptovaluta. Le autorità possono solo rintracciare le attività di conversione in valuta ordinaria delle criptovalute, ma non anche gli scambi.
La stessa Banca d’Italia non ha cognizione dell’entità di criptovalute detenute dai residenti.
Nella pubblicistica di settore sono state avanzate alcune proposte tecniche per affrontare il problema di portare efficacemente a tassazione le criptovalute e mitigarne le conseguenze negative sulla lotta all’evasione fiscale.
La prima soluzione possibile è chiedere alle banche il resoconto di tutti i trasferimenti di fondi verso le piattaforme di trading specializzate in vendita di bitcoin e simili per individuare chi e per quali importi ha comprato le valute digitali, e chi e per quali importi ha negoziato bitcoin e simili per accreditarsi euro sul conto.
Basterebbe anche, secondo alcuni analisti, chiedere che ogni esercizio commerciale (negozio, supermercato, magazzini on line) che vende un bene o un servizio ricevendo in cambio criptovalute debba segnalare al fisco le generalità dell’acquirente.
La questione è ancora tutta da esplorare.
La cosa assurda è dover pagare la plusvalenza anche solo facendo lo swap tra una crypto e l’altra. Per quanto mi riguarda è del tutto impossibile poterlo farlo. Se invece pago le tasse quando converto in fiat è molto più semplice.