Serve una tassazione flessibile in grado di consentire alle società non solo percorsi difensivi ma anche di crescita guardando all’internazionalizzazione
Su Il Sole del 13 luglio sono state commentate le conclusioni di uno studio di Kpmg sulla capacità delle nostre imprese a vincere la sfida della globalizzazione, che fotografano un’Italia “bipolare”, in cui pochi grandi gruppi hanno messo a segno importanti acquisizioni all’estero, proponendosi come leaders a livello mondiale, mentre le altre imprese, in particolare di dimensioni piccole e medie stentano a sopravvivere alla sfida del mercato globale o si sono trasformate in “multinazionali tascabili”, trasferendo la produzione all’estero per tagliare i costi e rimanere competitive.
Pare utile, al riguardo, ricordare alcuni interessanti elementi di riflessione in tema di competitività e delocalizzazione suggeriti da Gary P. Pisano e Willy C. – docenti della Harvard Business School – in un articolo pubblicato su Il Sole del 16 aprile 2010 “Outsourcing service un’inversione a U”.L’analisi prende le mosse dalla situazione degli Stati Uniti ma può utilmente essere riferita agli altri grandi paesi occidentali, Italia compresa. Osservano gli autori che, a partire dagli anni 80, la sfida alla competitività ha indotto le imprese a trasferire all’estero rilevanti funzioni industriali, e, in particolare, attività manifatturiere e di ricerca e sviluppo, nel convincimento che ciò consentisse, comunque, di mantenere in patria le funzioni di eccellenza, di progettazione e innovazione ad alto valore aggiunto. Ne è conseguita un’erosione progressiva della base industriale dei paesi d’origine, delle conoscenze e competenze del personale e, in genere, delle capacità collettive (“commons”) che ha indebolito il sistema nel suo complesso e determinato una reazione a catena in grado di pregiudicarne gravemente l’attitudine a produrre ricchezza. L’innovazione di prodotto è infatti strettamente legata alle innovazioni e conoscenze di ingegneria dei processi ed esse non possono essere mantenute senza la quotidiana interazione con la produzione manifatturiera e le capacità collettive.
“Si è ignorato che i nuovi prodotti di avanguardia spesso dipendono in misura cruciale dai commons di un settore maturo, perdendo i quali si perde l’opportunità di essere la sede dei business caldi di domani” . La competizione è tra sistemi paese che non possono permettersi di perdere la capacità di innovare e produrre ricchezza e che quindi devono favorire percorsi virtuosi e dinamici alla internazionalizzazione. Percorsi non meramente difensivi. E, qui, deve giocare il suo ruolo anche la fiscalità, perché il trasferimento al’estero di importanti funzioni produttive dipende anche dalla necessità di ridurre il peso delle imposte che gravano sulle imprese e sul lavoro. In tale contesto, sarà giusto e equo il fisco che saprà adattarsi alle nuove sfide e proporsi come strumento flessibile di attrattività e di crescita. Cominciamo dunque con l’aprire un osservatorio sul mondo e sulla fiscalità degli altri.